Gli elettori difficilmente sbagliano: sentono, vedono, capiscono e giudicano. Sabato nel Victoria hanno emesso un verdetto inequivocabile a favore del premier Daniel Andrews e della sua squadra: bene, bravi, bis. E che bis! Riconferma netta, maggioranza schiacciante. Liberali spazzati via, ‘puniti’ per una campagna che ha cavalcato soprattutto paure ingigantite, ma anche per quello che è successo a Canberra lo scorso agosto. Nel mirino anche i verdi, che escono notevolmente ridimensionati dalla sfida elettorale dopo una serie di scandali che non sono passati inosservati.
Andrews invece ‘premiato’ per il suo governo del fare, per uno Stato in ottima salute dal punto di vista economico, che rifiuta i messaggi che continuano ad arrivare dalla capitale e che hanno avvolto l’intero mondo liberale, mettendo più o meno indirettamente e più o meno volontariamente sotto accusa concetti importanti come multiculturalismo, solidarietà, uguaglianza.
Governo promosso a pieni voti perché ha mantenuto buona parte delle promesse fatte nel 2014, perché Melbourne è un cantiere che offre impiego, opportunità e sviluppo e continuerà a esserlo dopo una seconda raffica di promesse di nuove linee ferroviarie, nuove arterie stradali, nuovi ospedali e scuole, pannelli solari a metà prezzo nell’ambito di un programma energetico ambizioso, evidentemente in linea con i desideri degli elettori, nonostante i rischi di un’accelerazione verso obiettivi non adeguatamente sostenuti dalla realtà delle risorse a disposizione. Un piano comunque in sintonia con quello laburista federale, che Bill Shorten ha presentato a 48 ore dal test statale, rafforzando le differenze con la Coalizione: da una parte, una squadra unita con un progetto ben preciso di traguardi da raggiungere o portare avanti; dall’altra, una mancanza di coesione ed intenti, in un procedere a strappi tra paure, accuse e risentimenti.
Di conseguenza, due immagini ben distinte di un governo (che già c’è nel Victoria e che probabilmente ci sarà fra pochi mesi a Canberra) che punta sul riformismo, che avanza proposte, che ha chiari programmi che possono anche non piacere e che, nel caso di Andrews, vengono messi in pratica e la Coalizione che, a livello federale, non sembra avere ancora superato la crisi interna delle lotte, dei regolamenti di conti, dei sospetti e delle recriminazioni e, nel caso del Victoria, ha dato l’impressione di cercare di essere un po’ tutto senza credere effettivamente in niente di preciso. Toni federali su severità, giri di vite, immigrati, criminalità a sfondo etnico e terrorismo, con invasioni di campo in fatto di autorità e sentenze e ‘soluzioni’ più facili da annunciare che concretizzare per una ben precisa divisione tra potere politico e giudiziario; programmi su infrastrutture decisamente importanti, ma sicuramente più frammentati rispetto ai progetti laburisti e netto ritardo, con l’impressione di un inseguire più che un guidare il dibattito nei campi elettoralmente e socialmente-chiave della sanità e dell’istruzione. Un’alternativa così-così, che gli elettori hanno respinto con una chiarezza che ha sorpreso vincitori e vinti.
Un massiccio spostamento di voti (in molti casi a doppia cifra) a favore del governo, con riconferma convincente in tutti quei seggi che alla vigilia del voto avevano fatto sperare i liberali, quelli del litorale che porta a Frankston che i laburisti detenevano con un margine minimo di vantaggio e che hanno difeso raccogliendo un incredibile numero di consensi extra. Un’onda lunga che ha travolto anche collegi che, fino a sabato scorso, sembravano autentiche roccaforti liberali, come Hawthorn, Sandrigham e Box Hill.
Un’ora dopo la chiusura dei seggi era già certo il successo-bis di Andrews, due ore dopo non solo era chiara la vittoria, ma le dimensioni della disfatta dei liberali.
Quasi immediata l’azione di contenimento dei danni. Il vice leader federale Josh Frydenberg ha cercato, infatti, di minimizzare l’impatto negativo di Canberra sulla campagna e il risultato statale e ha negato la teoria delle ‘prove generali’ per quello che potrebbe succedere a maggio del prossimo anno. Molti nelle file dei liberali probabilmente si augurano che lo dica perché lo deve dire, ma che non ci creda davvero. Perché pensare che quello che è successo sabato nel Victoria non abbia alcuna legame con quello che è successo e sta succedendo a Canberra è pura fantasia. Le divisioni in politica sono letali e non c’è prova statale che non abbia una percentuale, più o meno consistente, di ‘ragioni’ federali incorporate nel risultato delle urne. La sfida mal orchestrata di Dutton a Turnbull, che ha portato Morrison alla Lodge, non ha determinato la sconfitta di Guy, ma ha sicuramente contribuito a renderla più catastrofica, in fatto di numeri.
I tagli preannunciati al programma d’immigrazione in risposta a ‘pressioni’ più interne che popolari, i problemi che Morrison è andato a cercarsi col lanternino dello spostamento dell’ambasciata in Israele, il piano che non c’è in fatto di politiche energetiche (con il NEG – National Energy Guarantee - di Turnbull e Frydenberg che Shorten ha fatto suo), Abbott, Joyce, Dutton, il protezionismo di Trump, i rapporti con la Cina e l’Indonesia, la maggioranza che non c’è più in parlamento fanno parte di un percorso a ostacoli in vista delle prossime elezioni: meno male che è in arrivo il Natale e un’opportuna pausa estiva per rimettere a fuoco la strategia per la lunga volata elettorale. In mezzo le statali del New South Wales, dove i liberali sono messi male, ma i laburisti sembrano stare peggio, quindi il budget, il ritorno in attivo con un anno di anticipo, l’economia che regge, la disoccupazione in calo. La speranza è sempre l’ultima a morire e cinque o sei mesi possono essere pochi, ma anche tanti per poter cambiare prospettive e umori. Al momento è notte fonda in casa liberale. Fare finta che non sia così non aiuta.