RIO DE JANEIRO (BRASILE) – “Il più grande spreco del calcio: io. Mi piace questa parola, spreco. Non solo perché suona bene, ma perché mi piace un sacco sprecare la vita. Sto bene così, in un frenetico spreco. Mi piace questo stigma”. Comincia così la lunga lettera aperta scritta da Adriano e pubblicata su “The Player's Tribune”.
L’ex attaccante brasiliano di Inter, Parma e Fiorentina si mette a nudo. “Non faccio uso di droghe, anche se provano a dimostrarlo. Non sono un criminale, però certo, avrei potuto esserlo. Non mi piace fare serata. Vado sempre allo stesso posto, il chiosco di Naná. Se vuoi trovarmi, passa di là. Sì, bevo tutti i giorni, spesso anche nei giorni in cui non bevo. Perché una persona come me arriva a bere quasi tutti i giorni? Non mi piace dare spiegazioni agli altri. Ma eccone una. Perché non è facile essere una promessa rimasta incompiuta. Soprattutto alla mia età”.
L’Imperatore, oggi 42enne, ammette che “tanta gente non ha capito perché ho abbandonato la gloria dei campi per restare qui seduto a bere, come se fossi apparentemente alla deriva. Perché a un certo punto ho voluto così, ed è una decisione difficile da tornare indietro”.
Adriano parla della sua vita a Vila Cruzeiro (“non è il miglior posto al mondo ma è il mio posto”), dei problemi con l’alcol e del rapporto col padre. “La sua morte ha cambiato la mia vita per sempre. Ancora oggi è una cosa che non sono riuscito a superare”.
L’ex attaccante torna agli anni in nerazzurro: “Era quello che avevo sognato per tutta la vita. Dio mi aveva dato l’opportunità di diventare calciatore in Europa. La vita della mia famiglia è migliorata molto grazie alla mia fatica ma non per questo mi è passata la tristezza. Quando sono “scappato” dall’Inter e me ne sono andato dall’Italia, sono venuto a nascondermi qui. Ho girato tutto il complesso per tre giorni. Nessuno mi ha trovato. È impossibile. È la regola numero uno della favela. Zitto e mosca. Mi hanno criticato un sacco per questo. Che ti piaccia o no, era l’indipendenza di cui avevo bisogno. Non ce la facevo più in Italia, appena uscivo di casa dovevo guardarmi attorno e controllare chi c’era, dove stavano le telecamere, chi si avvicinava, se era un giornalista, un furbo, un truffatore, o chissà quale altro rompiscatole. Non capivano perché fossi tornato in favela. Non era per l’alcol, né per le donne, tanto meno per la droga. Era per la libertà. Era perché volevo un po’ di pace. Volevo vivere. Avevo bisogno del mio spazio, di fare quello che volevo fare”.