La politica economica australiana è entrata in una fase, particolare, al limite del paradosso. Da un lato, Anthony Albanese e Jim Chalmers rivendicano i progressi ottenuti: inflazione in calo rispetto ai picchi del 2022, salari che finalmente mostrano segni di crescita, disoccupazione ai minimi storici.
Dall’altro lato, i numeri della produttività raccontano però una realtà che potrebbe preoccupare: un Paese che da anni fatica a produrre di più con meno risorse, un sistema che rischia di vivere di rendita sull’estrazione mineraria senza affrontare le trasformazioni profonde necessarie per reggere la competizione globale.
In questo contesto, il dibattito politico tra governo e opposizione si sposta inevitabilmente sul rapporto tra fortuna e merito. Perché, se è vero che i bilanci pubblici hanno beneficiato di entrate straordinarie grazie a prezzi elevati di ferro, carbone e gas, è altrettanto vero che questa manna dal cielo, anzi dal suolo, non può durare all’infinito. La questione decisiva è se l’Australia saprà utilizzare questo tempo favorevole per costruire basi solide di crescita, oppure se continuerà a rimandare le riforme più difficili.
La recente vicenda del blocco temporaneo delle esportazioni di minerale di ferro di BHP verso la Cina è stata interpretata dal governo come un semplice episodio di negoziazione commerciale. Albanese, con prudenza, ha invitato alla calma, ribadendo la centralità del legame economico con Pechino. Ma sarebbe ingenuo pensare che tutto si riduca a un contrattempo burocratico: in Cina nulla è mai puramente commerciale.
Il gigante asiatico continua a usare la leva delle importazioni per piegare i vari partner alle proprie strategie industriali. Nonostante le difficoltà dei suoi altiforni, la direzione politica di Pechino resta chiara: privilegiare il minerale di qualità più alta, ridurre le emissioni e, quando possibile, indebolire i fornitori per imporre prezzi più bassi. Nel frattempo, concorrenti come il Brasile e, a breve, il giacimento africano di Simandou, si preparano a sottrarre quote di mercato all’Australia.
Le grandi compagnie minerarie, da BHP a Rio Tinto, si mostrano fiduciose sulla tenuta del Pilbara. Ma dietro l’ottimismo traspare una rigidità di fondo: l’industria australiana sembra restia a investire seriamente nel “green iron”, quell’acciaio a basse emissioni che potrebbe trasformare una vulnerabilità in un vantaggio strategico. Il risultato è che mentre altri Paesi sperimentano modelli produttivi più avanzati, Canberra resta prigioniera della vecchia equazione: scavare, esportare, incassare.
Il tesoriere Jim Chalmers ha più volte rivendicato la solidità dei conti pubblici, parlando di “gestione responsabile” e mettendo in vetrina i piccoli surplus ottenuti negli ultimi anni. Ma anche qui occorre distinguere tra narrazione e realtà.
L’exploit delle entrate fiscali, come detto, è stato il frutto di circostanze favorevoli - prezzi delle materie prime e gettito da imposte sul reddito - più che di un rigore nella spesa. Anzi, i dati mostrano che la spesa pubblica è cresciuta al ritmo più rapido da quarant’anni, alimentata da misure redistributive e da un’espansione costante della cosiddetta care economy. Una dinamica che, se da un lato offre il necessario sostegno immediato a famiglie e servizi, dall’altro sottrae risorse agli investimenti produttivi e mantiene viva la pressione inflazionistica.
Non a caso la Banca dei regolamenti internazionali ha individuato l’Australia tra i Paesi con la crescita più alta dei costi unitari del lavoro. In parole semplici: i salari crescono più della produttività. Il che significa che le imprese spendono di più senza ottenere un corrispondente aumento della produzione. Un terreno fertile per una nuova fiammata inflazionistica, con il rischio che la Reserve Bank sia costretta a frenare ancora sulla politica monetaria.
La governatrice Michele Bullock ha scelto la via della prudenza, lasciando intendere che non ci saranno riduzioni immediate dei tassi d’interesse. Una decisione che fotografa bene l’ambivalenza del momento: inflazione vicina al target, occupazione robusta, ma anche segnali di surriscaldamento nei prezzi delle case e nelle dinamiche salariali.
Il problema, ancora una volta, non è soltanto monetario. La Banca centrale può regolare il costo del denaro, ma non può da sola correggere gli squilibri strutturali. Se la politica fiscale continua a espandersi senza controllo, ogni passo della RBA diventa più complicato. Da qui l’appello implicito - e spesso esplicito - a un maggiore allineamento tra governo e banca centrale.
Ma l’esecutivo sembra più attratto dall’idea di spesa come strumento di consenso immediato che dalla disciplina necessaria a costruire basi solide. Una tentazione comprensibile se fossimo in un anno elettorale, ma che, in ogni caso, va a rischiare di compromettere la credibilità di lungo periodo.
La parola che domina il dibattito economico australiano, a volte sotto traccia, a volte più rumorosamente, è una sola: produttività. Da almeno un decennio il Paese registra tassi di crescita della produttività inferiori alla media OCSE, e negli ultimi anni la nostra performance è precipitata verso il fondo della classifica.
Il governo ha organizzato tavoli di confronto e summit sulla materia, da cui sono usciti impegni parziali: snellimento delle autorizzazioni ambientali, sospensione di alcune norme edilizie troppo onerose, piccoli incentivi all’innovazione. Misure utili, ma insufficienti. La produttività non si rilancia con ritocchi marginali: servono riforme strutturali sul fisco, sul mercato del lavoro, sulla concorrenza. E serve soprattutto una strategia industriale coerente, capace di ridurre la dipendenza da settori che non trainano più e di scommettere su nuove filiere ad alto valore aggiunto.
Qui si inserisce il grande equivoco del “rinascimento manifatturiero” invocato dal partito laburista. L’idea di rilanciare il Future Made in Australia con sussidi pubblici rischia di trasformarsi in un costoso déjà-vu: salvare a spese dei contribuenti industrie destinate a non avere più alcun successo, invece di incentivare e supportare quelle che possono davvero crescere. Non è un caso che lo stesso National Reconstruction Fund, con i suoi 15 miliardi di dollari, si muova tra prudenza e tentazione: finanziare impianti di pannelli solari o acciaierie “strategiche” è molto diverso dal puntare su settori realmente competitivi.
Il punto più delicato è che la politica economica australiana si trova a dover conciliare esigenze immediate e sfide di lungo periodo. Sul fronte immediato, le famiglie chiedono sollievo dal costo della vita, le imprese cercano stabilità e il governo non può permettersi di ignorare questi segnali. Sul fronte strategico, invece, l’Australia rischia di perdere il treno della trasformazione tecnologica ed energetica, continuando a vivere dell’export di materie prime senza aggiungere valore.
La storia insegna che le fasi di boom delle commodities sono spesso seguite da periodi di stagnazione. Se l’Australia non utilizzerà le attuali entrate straordinarie per finanziare riforme coraggiose, si ritroverà con le casse vuote proprio quando più ne avrebbe bisogno.
È il classico dilemma del Paese “ricco di risorse ma povero di idee”. Un destino che può essere evitato solo se la produttività tornerà al centro delle scelte politiche, non come slogan ma come criterio operativo per ogni decisione di bilancio, fiscale e industriale.
Albanese, parlando al congresso dei laburisti britannici, ha insistito sull’importanza del tempo: il tempo necessario per trasformare le promesse in realtà, per far calare l’inflazione, costruire case, aprire ospedali, collegare nuove energie. Ha perfettamente ragione rispetto alla pazienza: le riforme richiedono tempo, calma e un approccio di coerenza. Ma il tempo può diventare anche un nemico, se utilizzato solo per rinviare le scelte più difficili.
In un’epoca di sfiducia verso le istituzioni, i cittadini chiedono risultati tangibili. E la produttività, per quanto concetto tecnico ed economico a volte complesso da spiegare, si traduce poi nella vita quotidiana: salari più alti senza inflazione, servizi migliori senza tasse più pesanti, imprese più competitive che creano occupazione stabile.
È qui che si gioca la credibilità del governo. Non basteranno piccoli surplus di cassa o sussidi a pioggia distribuiti a ridosso delle elezioni. Servirà un progetto di lungo respiro, in grado di far percepire agli australiani che la prosperità non è soltanto il frutto di cicli globali favorevoli, ma di un sistema economico capace di innovare, crescere e resistere agli shock.
L’Australia non è un Paese in crisi. Anzi, per molti versi appare invidiabile: occupazione alta, export robusto, un livello di benessere che molti altri Paesi guardano con ammirazione. Ma proprio questa apparente solidità rischia di diventare un alibi per non affrontare le fragilità strutturali. Il nodo centrale resta la produttività. Senza una sua ripresa, ogni progresso sarà effimero, ogni surplus una parentesi, ogni promessa politica destinata a scontrarsi con i limiti della realtà.
In ultima analisi, il governo Albanese deve dimostrare di sapere trasformare l’Australia in un Paese più produttivo, più innovativo, più preparato alle sfide del futuro. È questa la sola eredità che può fare la differenza tra un decennio di declino e uno di rinnovata prosperità.