Giorgio Minisini ha solo 29 anni, ma ha già vissuto più di una vita. La prima è iniziata a sei anni, quando è sceso in vasca e ha cominciato a praticare il nuoto sincronizzato, lo sport di famiglia, di cui il papà, Roberto, era un giudice internazionale, e la mamma, Susanna De Angelis, ex atleta e allenatrice, anche dei figli Giorgio, Marco e Diana.
Durante la sua carriera Giorgio ha vinto tanto, diventando il primo nuotatore italiano ad aggiudicarsi il titolo di campione europeo e mondiale, ma ha anche cambiato la storia del nuoto sincronizzato, battendosi per farlo diventare uno sport inclusivo. “Quando a tre anni stai a bordo vasca e vedi lo sport tutti i giorni, lo vivi per quello che è: un’attività senza alcuna caratterizzazione di genere”, ha spiegato.
E quando in quella vasca è entrato, all’età di sei anni, ha continuato a considerare il nuoto sincronizzato semplicemente come uno sport, un punto di vista che l’ha probabilmente aiutato a superare le difficoltà di un mondo che lo voleva escludere solo perché, tradizionalmente, femminile. Una strada lastricata e in salita per lui, durante i delicati anni della formazione.
“Sono stato accusato molto spesso, sia dall’interno sia dall’esterno. Tante persone vedevano il mio nuotare in una realtà quasi prettamente femminile, come un qualcosa di sbagliato, come se fossi fuori posto, non normale. C’erano anche accuse sul mio orientamento sessuale, che è un doppio pregiudizio, perché non solo c’era il pregiudizio che dovessi per forza essere omosessuale, ma anche il pregiudizio sul fatto che, nel caso fossi stato omosessuale, sarebbe stata una cosa negativa”. Una situazione che certamente ha influito sulla sua serenità, ma non sulla determinazione.
In quel momento il nuotatore ha avuto la fortuna di trovare una solida sponda su cui appoggiarsi: le compagne di squadra e la sua allenatrice, anche se non nega di essersi “più volte trovato a pensare che forse il mondo aveva ragione e che forse ero io che effettivamente stavo sbagliando qualcosa”.
E, se da un lato queste riflessioni hanno rappresentato un peso e uno stress costante, sono state anche “il motore del mio impegno, perché sentivo di non star sbagliando”, ha confessato. Minisini ha ricordato con tenerezza quegli anni in cui, suo malgrado stava combattendo una battaglia, quando avrebbe voluto essere solo un nuotatore artistico.
“Le mie compagne di squadra mi davano l’opportunità di essere solo un atleta, che non significa che non c’era un rapporto; c’erano anche dei bei rapporti personali, però mi ha aiutato il fatto di non essere una questione politica quando entravo in vasca”.
Dal momento in cui ha cominciato a prendere parte alle competizioni nazionali e internazionali, grazie ad ambizione, forza e grazia ha vinto numerose medaglie e raggiunto un altissimo livello, ma allo stesso tempo si è anche reso conto che la sua partecipazione al mondo del nuoto sincronizzato poteva servire da esempio a tutti gli atleti che sarebbero arrivati dopo di lui.
Le gare di nuoto sincronizzato sono state per anni vietati agli atleti maschi, come ha ricordato: “Le Olimpiadi neanche le sognavamo. Tutte le mattine prendevo il treno alle 5:30 per andare al liceo, un altro treno di un’ora e mezza dopo per arrivare in piscina e poi due ore per tornare a casa. Ma non l’ho mai vissuto come un sacrificio; era una scelta che facevo, perché perseguivo un sogno in cui credevo. E penso che sia quella la chiave: muoversi per la propria volontà, muoversi verso qualcosa in cui si crede, muoversi perché ci si vuole muovere, ti permette di affrontare la fatica senza soffrirla, senza vederla come qualcosa di negativo”.
Dopo anni vissuti seguendo questo ritmo, però, è arrivato un momento in cui quella fatica ha cominciato a soffrirla e ha deciso che il suo tempo era finito. Una consapevolezza arrivata quasi in contemporanea con l’esclusione dalle Olimpiadi di Parigi lo scorso anno, ma che non è stata determinata dalla delusione, quanto piuttosto dall’aver capito che quell’allontanamento avrebbe significato dover rinunciare ai suoi sogni, sacrificare la propria motivazione, accontentandosi e allineandosi a una politica che non condivideva.
“Quando nel 2022 ci fu l’apertura agli uomini per gli eventi di squadra alle Olimpiadi, la prima cosa che ho pensato è che sarebbe stata la mia occasione per restituire qualcosa alla squadra e magari vincere insieme, visto che io avevo già vinto medaglie da solo e in coppia”. Nella testa del nuotatore, abituato a puntare sempre al massimo, l’obiettivo era una medaglia con le compagne con cui si allenava otto ore al giorno, tutti i giorni.
“Ciò di cui non mi ero reso conto era che l’ambiente organizzativo, la cultura della Nazionale, al di sopra delle atlete, e fuori dal singolo maschile e del doppio misto, è sempre stata quella di accontentarsi di difendere il [tradizionale] quinto posto”, ha spiegato. La sua spinta al cambiamento per cercare di ottenere un risultato migliore è stata all’epoca percepita negativamente, come un atto di ribellione, quasi stesse mettendo a rischio i risultati raggiunti in passato “non dalle mie compagne di squadra ma, purtroppo, dagli allenatori”.
La presa di coscienza e la reazione seguite a questo momento complicato della sua carriera hanno dimostrato, ancora una volta, la determinazione e la maturità di un atleta abituato a non fermarsi davanti al primo ostacolo, capace di trasformare il disinganno in una spinta, grazie alla quale ha iniziato con grande energia la sua nuova vita da preparatore, allenatore e studente di psicologia.
Una scelta, quella di rimettersi sui libri, dettata dal fatto che “soprattutto gli ultimi due anni, mi hanno insegnato su quanto l’approccio psicologico sia un limite in tanti ambienti sportivi. Imparare a utilizzare la psicologia per creare un clima migliore, non solo permette agli atleti di stare meglio e agli allenatori di avere una relazione migliore con loro, ma produce anche risultati migliori”, ha sottolineato Minisini, secondo cui è indispensabile imparare ad “allineare gli obiettivi dell’organizzazione a quelli degli atleti”.
E, in questa nuova veste, il campione è approdato in Australia, dove ha detto di aver trovato “un ambiente molto stimolante” per un progetto ambizioso come quello di costruire una “squadra sostenibile che possa arrivare alle Olimpiadi del 2032 in casa, a Brisbane, in modo altamente competitivo”.
Con tappe a Perth e a Melbourne, Minisini ha avuto modo di apprezzare come nell’ambito della Nazionale australiana ci sia una particolare attenzione “a quegli aspetti che invece sono mancati a me quando ero atleta, cioè cercare di partire dalla motivazione degli atleti, per costruire una squadra che arrivi competitiva alle Olimpiadi”. Non si può prescindere dalla motivazione di chi scende in vasca, ha insistito il campione italiano: “Devono essere loro a voler arrivare lì; non glielo puoi imporre”.
Il passaggio a bordo vasca gli ha fatto anche cambiare punto di vista, portandolo a lasciare andare quell’intransigenza con cui ha sempre giudicato se stesso durante gli anni del professionismo.
“Perché la durezza che avevo con me stesso non è ciò che mi ha fatto vincere. Ciò che mi ha fatto vincere è stato, ogni volta dopo una caduta, avere qualcuno che mi aiutasse a rialzarmi. Ecco, rialzarsi dopo una caduta per imparare da ciò che è successo è la chiave per vincere”. Il fine ultimo, dunque, non è l’eccellenza, ma l’esperienza di crescita che si vive dopo ogni errore.
E in fondo, ha ricordato, per gli atleti “vincere è solo una parte del percorso”. “Le medaglie hanno tantissimo valore finché non le raggiungi; poi devi trovare un’altra motivazione”. La ricerca della vittoria può fungere da spinta verso il miglioramento, ma “perdere è un’opportunità per imparare qualcosa di nuovo”, perché in fondo l’attività sportiva rappresenta “un ambiente protetto in cui sperimentare il fallimento”.
Che lo sport per lui sia qualcosa di più della conquista di una serie di titoli, Minisini l’ha dimostrato in tutta la sua carriera e continua a farlo, anche attraverso l’impegno profuso nel progetto Filippide, un programma con sede a Roma che vuole aprire lo sport ai ragazzi con disabilità cognitiva. All’interno di questo progetto, e grazie al contributo dello stesso Minisini, è stata creata una squadra di nuoto artistico, di cui l’atleta è allenatore, ma lo vede anche esibirsi nel doppio misto con Arianna Sacripante, una ragazza con la sindrome di Down.
La coppia, che nuota insieme dal 2018 con grandissimo successo, porta nelle piscine italiane la potenza del messaggio della vera inclusività, perché “la disabilità non si caratterizza solo per quello che le persone non riescono a fare, ma anzi per come le persone possono superare quei limiti, con i loro modi, i loro tempi, le loro strategie”, ha aggiunto Minisini, che sogna per il futuro un’Olimpiade e una Paraolimpiade inclusiva, in cui gli atleti gareggino insieme, anche temporalmente. Il suo impegno per rendere il mondo dello sport un posto migliore è cominciato quasi inconsapevolmente; poi, piano piano ha preso forma il pensiero di voler evitare che gli atleti più giovani che si avvicinano al nuoto sincronizzato attraversino le sue stesse difficoltà, vivano gli stessi pregiudizi, l’ostruzione interna.
“Voglio che chi viene dopo di me abbia un’esperienza migliore […]; voglio che i ragazzi vincano, non sono medaglie, ma anche lezioni, che vincano relazioni, che vincano esperienze di vita positive nel mondo dello sport”.
“Il mio sogno, già da quando ero atleta - ha ricordato - è di lasciare una disciplina migliore di quella che ho trovato”. E, a quanto pare, ne ha già fatta parecchia di strada, in questa direzione.