Città di confine, crocevia di culture e commerci, Trieste è stata protagonista di una delle migrazioni più complesse della storia italiana del Novecento. Un’emigrazione che, sebbene abbia cambiato profondamente il volto della sua città, è rimasta a lungo trascurata o fraintesa. La storia dei triestini che, tra gli anni ’50 e ’60, hanno deciso di partire per l’Australia, non è, difatti, solo una narrazione di partenza e speranza, ma un riflesso delle difficoltà politiche e identitarie di un territorio conteso e lacerato da poteri contrastanti, frammentato nella sua coesione sociale e privato della stabilità necessaria per immaginare un domani sereno.

È proprio questa peculiare traiettoria storico-geografica che Gianfranco Cresciani –ricercatore italo-australiano, triestino di nascita e australiano d’adozione – riporta al centro dell’attenzione. In Trieste Goes to Australia, pubblicato nel 2011 e riproposto in una nuova edizione nel 2025, lo storico demolisce la comoda e rassicurante narrativa che vuole la migrazione triestina come parte indistinta della grande diaspora italiana, quella della “brava gente a catar fortuna” (la brava gente in cerca di fortuna).

“Molti mi scrivevano via e-mail dicendo di non sapere perché i loro genitori erano venuti in Australia – racconta Cresciani –. I genitori non gliene hanno mai parlato, e ora, grazie al libro, capiscono finalmente cosa sia successo". Il ricercatore non accetta la versione edulcorata, non si accontenta del racconto lineare che trasforma una frattura collettiva in una storia di coraggio e valigie di cartone. Al contrario, scava. Riscopre pagine assopite, contesta “la storia condivisa”, porta a galla quella che definisce una “storia scomoda”, fatta di timori, incertezze, pressioni politiche e identitarie. Fra il 1954 e il 1961, ricorda l’autore, circa il 10% della popolazione triestina lascia la propria casa per una terra “lontana e sconosciuta”: una percentuale anomala, impressionante, che non trova spiegazione nelle formule abituali dell’emigrazione del Belpaese.

Per capire perché una località – un tempo magnete di popoli – si svuoti così rapidamente, il ricercatore costruisce un percorso storico essenziale ma incisivo. Dopo il 1918, quando la città, in passato centro nevralgico dell’Impero austriaco, passa all’Italia, la transizione non è né indolore né uniforme. Le comunità slovene e croate vengono guardate con sospetto, la fiducia reciproca si assottiglia, e sotto il Fascismo Trieste diventa una frontiera ideologica, scenario di italianizzazioni forzate e crescente sorveglianza internazionale. L’economia soffre: la perdita dell’hinterland asburgico la priva della sua spina dorsale naturale e la relega in un margine politico ed economico. Poi arriva la Seconda guerra mondiale: con l'occupazione tedesca la città sperimenta violenze, repressioni, sotterfugi, traumi che lasciano ferite ancora difficili da rimarginare.

La pace non porta alcun sollievo. Nel maggio 1945 la città mitteleuropea viene occupata dai partigiani jugoslavi e subito dopo dagli anglo-americani: un passaggio di consegne rapido e inquieto. Nel 1947 il Trattato di pace crea il Territorio Libero di Trieste: una città divisa, sospesa nella Zona A amministrata dagli Alleati e nella Zona B sotto controllo jugoslavo. È una costruzione politica fragile, un ibrido amministrativo che genera confusione, conflitti di identità, scontri di piazza dove ogni gesto diventa simbolo di una sovranità incompiuta. Anche il Memorandum di Londra del 1954, che assegna la Zona A all’influenza italiana e la Zona B a quella jugoslava, non restituisce subito la stabilità: Trieste rimane un confine vibrante, attraversato da timori, incertezze e una perenne sensazione di precarietà.

È dentro questo clima che Cresciani colloca la grande fuga. E ribadisce con forza ciò che più di tutto sovverte la narrativa ufficiale: i triestini che partono non sono migranti ‘tipici’. Non lasciano la città per fame o miseria. Non sono contadini in cerca di terre fertili o operai alla ricerca di un salario più alto. Sono impiegati qualificati, tecnici, insegnanti, funzionari dell’amministrazione alleata, persone istruite, spesso con stipendi stabili e una vita già costruita. Eppure, partono. Perché? Perché, nota lo storico, si muovono dentro un paesaggio politico frastagliato, segnato da appartenenze incerte, da ideologie in conflitto, da un quotidiano intriso di sospetti e promesse non mantenute. Nel caos di quegli anni, scrive l’autore, si avverte ovunque “un senso di insicurezza e di paura per il futuro”: una mancanza di coesione a livello di nazionalità, etnia e ideologia che spinge a cercare altrove ciò che la città non sembra più in grado di garantire. Sono triestini “stanchi ormai di promesse vaghe”, “pedine indifese, intrappolate nella rete degli intrighi nazionali e delle macchinazioni delle grandi potenze”.

L’Australia, negli stessi anni, rappresenta l’opposto: un Paese deciso ad attrarre manodopera, desideroso di popolare i suoi spazi immensi, pronto a facilitare gli arrivi con programmi di passaggi assistiti e condizioni più favorevoli rispetto ad altre destinazioni. “Il 15 marzo 1954 la nave Castel Verde salpa con 650 triestini a bordo”, ricorda Cresciani. Questa è solo la prima di una lunga serie di partenze che cambieranno il volto della diaspora adriatica. Ma l’approdo non è una liberazione immediata: “Al di là dell’oceano i triestini si scontrano con qualifiche non riconosciute, lavori modesti, città in cui i pub chiudono alle sei e la vita sociale deve essere reinventata” afferma l’autore. Alcuni tornano in patria, mossi da un’incolmabile nostalgia, ma vengono etichettati, ora, come ‘Kangaroo’. 

Trieste, osserva lo scrittore, vive così “un triste prologo” che capovolge la sua storia di porto magnetico e accogliente. Ma il filo che unisce l’Adriatico alle coste australiane non racconta soltanto di partenze dolorose: racconta anche la possibilità di rinascere, di trovare altrove quella quiete che in patria sembrava irraggiungibile. I triestini, oltre oceano, non si arrendono: fondano associazioni, ricreano spazi di incontro, costruendo un’identità nuova. 

Perché, come conclude lo storico, la patria non coincide necessariamente con un confine o con una bandiera: “La patria – si legge nelle ultime pagine del libro-, è dove si sta bene”.