WASHINGTON – “Una montatura, una bugia totale”. Così la portavoce della Casa Bianca, Stephanie Grisham, ha definito la notizia che il presidente americano, Donald Trump, avrebbe offerto la grazia a Julian Assange, se il fondatore di WikiLeaks avesse detto che la Russia non era coinvolta nella divulgazione delle mail di Hillary Clinton.
Secondo quanto sostenuto dall’avvocato di Assange, Edward Fitzgerald, il presidente degli Stati Uniti avrebbe fatto pervenire la sua offerta attraverso il senatore repubblicano, Dana Rohrabacher, che nell’agosto del 2017 aveva fatto visita al fondatore di WikiLeaks.
“Il presidente a malapena sa chi è Dana Rohrabacher, se non che è un ex membro del Congresso. Non ha mai parlato con lui di questo o di qualsiasi altro argomento. È una montatura, una bugia totale – ha affermato Grisham –. Questa è probabilmente un’altra delle bufale inventate dal comitato nazionale democratico”.
In ogni caso, il giudice del Tribunale di Westminster, Vanessa Baraitser, ha ritenuto che la dichiarazione dell’avvocato Fitzgerald fosse una prova ammissibile al processo.
Secondo la ricostruzione offerta dal Guardian, nell’aprile del 2017, Trump invitò Rohrabacher alla Casa Bianca. Nel settembre dello stesso anno, la Casa Bianca confermò che Rohrabacher aveva chiamato l’allora capo dello staff, John Kelly, per parlargli di un possibile accordo con Assange.
Successivamente Rohrabacher raccontò al Wall Street Journal che, in base all’accordo, Assange si impegnava a dire che la Russia non era la fonte delle mail sottratte a Hillary Clinton. Secondo il Guardian, Kelly non trasmise il messaggio di Rohrabacher a Trump, che dunque non sarebbe stato al corrente dei dettagli della proposta.
Assange è stato arrestato lo scorso aprile dopo sette anni di residenza nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra. Se dovesse essere estradato negli Stati Uniti, potrebbe essere condannato fino a 175 anni di carcere per 18 reati, tra cui la cospirazione e il furto di documenti riservati.
La settimana scorsa, due parlamentari australiani – Andrew Wilkie e George Christensen – si sono recati a Londra per chiedere al primo ministro britannico, Boris Johnson, di bloccare l’estradizione del giornalista australiano.