Nei tanti anni trascorsi all’estero, un commento che mi viene spesso rivolto è quello che noi italiani siamo un paradosso vivente. Se da un lato ci complichiamo la vita e tendiamo sempre a vedere il lato negativo delle cose, dall’altro, quando ci mettiamo seduti a mangiare, questo modo di essere si stravolge completamente. È proprio lì, intorno al tavolo, che i problemi smettono di esistere, che tutto diventa più semplice, che la famiglia si riunisce, “armi deposte”, e generazioni che vivono così distanti tra loro riescono a trovare un punto d’incontro.

In occasione della recente proclamazione della cucina italiana a patrimonio UNESCO dell’umanità, ho parlato con alcuni dei nomi di spicco della ristorazione italiana di Melbourne, per conoscere le loro reazioni a caldo, e capire come questa alta onorificenza andrà ad influire sul futuro dei loro business.

Per Caterina Borsato, proprietaria dell’iconico Caterina’s Cucina & Bar, il patrimonio gastronomico italiano va ben oltre la tradizione regionale.

“Questo riconoscimento va a tutte le nonne e le mamme che si alzavano presto la domenica mattina per preparare i tortellini e il brodo, o per cucinare il baccalà. Il mio ristorante è nato proprio per questo: sin da piccola il momento più importante per la mia famiglia è sempre stato il pranzo della domenica, quando trascorrevamo ore al tavolo tutti insieme, a mangiare e parlare”.

Borsato ammette che i tempi adesso sono diversi, e se da una parte questo rituale è stato possibile per il semplice fatto che la mamma era una casalinga, dall’altra lei non ha potuto offrire altrettanto a sua figlia, essendo impegnata a gestire un ristorante di successo. “Questo locale è basato sul concetto di quel lungo pranzo domenicale. È così che io porto avanti quell’amore e quella tradizione famigliare. Quando siamo stati costretti a chiudere durante il periodo del Covid, pensavo spesso a quando mia nonna si metteva in giardino a sbattere il baccalà. E da lì ho avuto l’ispirazione di portare nel menù questo grande piatto della tradizione veneta, così come lo faceva mia nonna”.

Per quanto la conversazione sia stata breve, Borsato è riuscita ad aprirmi la porta, e il suo cuore, alla propria dimensione, che recentemente sembra esser celebrata più del solito. “Non so’ se è perché abbiamo ricevuto due cappelli dalla guida dei ristoranti, o se perché ho vinto il Lifetime Achievement Award, o se per questa inclusione all’UNESCO. Magari è un insieme, ma non siamo mai stati così pieni sia a pranzo che a cena!”. 

L’opinione di Tony Nicolini, chef e ristoratore, nonché fondatore dell’impero DOC e proprietario di Italian Artisans ad Albert Park, è che questo riconoscimento rappresenti un punto di riferimento per il futuro della nostra cucina. “Se è vitale seguire le tradizioni, lo è altrettanto lasciare spazio alle nuove generazioni con le loro interpretazioni contemporanee, andando sempre, però, a rispettare quello che la vecchia generazione ci ha trasmesso”. 

Per Nicolini questo, quindi, sancisce quel sacro atto di tramandare ricette, oltre ad offrire una rinnovata ispirazione, senza forzature, ai giovani chef, per continuare con tutti quegli antichi sapori e rituali che fanno parte dello stesso DNA della cultura del Belpaese. “Dopo tutto, non cuciniamo per campare. E questo ci aiuterà ulteriormente per avvicinare gli australiani ad un vero e proprio modo di vivere”.

Gli fa eco Matteo Fulchiati, giovane chef originario di Parma, oggi alla guida della cucina del ristorante Lagotto a North Carlton. “La cucina italiana ha meritato questa notorietà dall'UNESCO, perché è molto variegata e con tradizioni storiche, e questo gli dà più importanza e prestigio, soprattutto all'estero”.

Secondo Fulchiati questo è un momento storico per i giovani chef che stanno facendo esperienze nelle cucine di ristoranti italiani in giro per il mondo, e che cercano di fare del loro meglio senza avere avuto esperienza diretta sul campo.

“Secondo me la tradizione va assolutamente portata avanti. Nella mia cucina io lo faccio, riadattandola però al 2025. Una cosa che può essere migliorata nella cucina tradizionale italiana è il livello di presentazione. La nostra cucina nasce dal fatto che non doveva essere bella, doveva sfamare la famiglia. Anche senza il lato estetico, però, il sapore e l’amore sono sempre stati lì. È importante riportare tutti questi valori in chiave ristorante, con presentazione, tecnica e preservando i sapori e i ricordi del territorio”.

Pia Gava, ex concorrente di MasterChef, autrice e organizzatrice di masterclass di successo sulla pasta fresca e gli gnocchi, vede l’inclusione alla lista UNESCO come un’opportunità per salvaguardare la storia e la tradizione italiana. 

“Di tutte le cucine al mondo, l’italiana è una di quelle su cui tutti mettono mano. Il che va bene, ma alcune persone, purtroppo, compromettono davvero quello che è il piatto originale, come per la famosa carbonara. Ci sono chef e influencer che non danno le informazioni corrette.  Essere riconosciuti per ciò che è corretto, tradizionale e parte di una cultura specifica, è un onore”.

Per Gava l’onore si allarga al modo di vivere, alle emozioni che vengono riversate in ogni piatto, e alle ragioni per cui è stato creato, che siano queste frutto di necessità, o per celebrare un’occasione particolare.

“Quando insegno un piatto specifico nelle mie masterclass, parlo sempre della sua provenienza, e anche di come questo può cambiare all’interno della stessa regione di appartenenza. E se lo cambio, lo faccio per un motivo, sia questo legato alla disponibilità di uno specifico ingrediente stagionale, o per come la mia famiglia lo preparava. In ogni caso, sono molto attenta ad informare i partecipanti di ciò”.

Johnny Di Francesco, World Pizza Champion e fondatore di 400 Gradi, non è nuovo a riconoscimenti da parte dell’UNESCO. “Sono stato molto fortunato ad aver fatto parte, anni fa, dell’introduzione della pizza napoletana all’UNESCO. E vedere che ora anche la cucina italiana è stata introdotta, è solo un altro tassello che si va aggiungere al mosaico”. Per Di Francesco la cucina italiana ha dietro di sé un grande patrimonio, ed è molto importante che si continui a farla crescere al di fuori dall’Italia, e soprattutto in Australia, dove vive una delle più grandi comunità italiane al mondo. 

Ci si deve, però, ben guardare dalle imitazioni: “In tutto il mondo, non importa dove vai, la cucina italiana è sempre stata un po’ modificata per adattarsi al palato locale. Penso che questo riconoscimento aiuterà a tutelarla. È come lo Champagne per la Francia: non possiamo chiamare Champagne una bollicina che non proviene dallo Champagne”.

Di Francesco aggiunge di guardare a questa onorificenza come un punto di partenza per tutte le attività di ristorazione e ospitalità.

L’ultima parola va a David Lakhi, proprietario di Little Black Pig & Sons a Heidelberg. Emigrato dall’India all’età di 19 anni, Lakhi ha trascorso 12 anni al fianco dell’allora settantaquattrenne Clara Capucci nel ristorante italiano di famiglia. Un periodo, quello, che non solo ha tramandato ricette di una cultura non di appartenenza, ma che ha, di fatto, reso Lakhi un figlio adottivo della cultura italiana. 

Nel suo ristorante, che serve la tipica “cucina povera” imparata da Clara, tutto viene fatto a mano, dalla pasta, al pane, fino al gelato e gli stessi savoiardi usati nel tiramisù. Tanti i clienti, soprattutto i turisti italiani, a cui Lahki è riuscito, nella sua semplicità, a toccare le corde del cuore e a strappare una lacrima. “In Australia la pizza e la pasta sono ormai pietanze base. I miei figli mangiano pasta con il ragù bolognese tre volte alla settimana. Quando cresceranno, e prepareranno il ragù, lo ricollegheranno ai loro ricordi d’infanzia. Ed è per questo, secondo me, che la cucina italiana è stata inserita nella lista UNESCO. Perché collega le persone ai loro ricordi, e la semplicità della cucina è incredibile. Non serve molto per creare un piatto buonissimo e rendere felici le persone”. 

Secondo Lakhi il semplice atto di mangiare tutti insieme seduti a tavola ha un valore inestimabile. “Nessuno a casa mia inizia a mangiare fino a quando tutti non siamo seduti. È importante nutrire lo stomaco, ma nutrire l’anima è ancora più importante. Perché è così che si porta la pace, soprattutto considerando quello che sta succedendo nel mondo. Il pianeta è molto fragile in questo momento, e ciò di cui abbiamo bisogno è cibo, e musica, per unire le persone, spezzare il pane insieme e trovare una sorta di pace”.