Il 22 marzo del 1921 nasce a Castro dei Volsci (Frosinone) Nino Manfredi, il ciociaro più italiano che sia mai esistito, il comico triste dentro, un clown bianco, che ha saputo conquistare il grande pubblico e i grandi registi con la stessa apparente semplicità dell’amico della porta accanto. La provincia natale di Saturnino Manfredi si chiamava a quel tempo “terra e lavoro” (oggi nel frusinate) e questo potrebbe suonare perfetto motto per la sua arte, impastata di tenacia, concretezza, sudore.

Ma l’anima è più sensibile, solitaria e segreta. E’ figlio di contadini anche se il padre si guadagna poi i galloni di maresciallo in polizia ottenendo il trasferimento a Roma. Nino è il primogenito ma non sembra promettere bene: scappa più volte dal collegio religioso in cui è stato iscritto da semiconvittore, contrae la tubercolosi, cresce in sanatorio e qui, grazie a un’esibizione della compagnia teatrale di Vittorio De Sica, s’innamora della recitazione. Guarito, si iscrive all’università, ma passa le sere a recitare in un teatrino parrocchiale. Dopo l’8 settembre scappa in montagna col fratello e a guerra finita sembra mettere la testa a posto: torna all’università e in contemporanea si iscrive all’accademia d’arte drammatica. Qui trova in Orazio Costa il suo mentore e, tacitata la famiglia con una stentata laurea in legge, debutta in teatro con Tino Buazzelli nella compagnia Maltagliati-Gassman, per lo più vedendosi affidare ruoli drammatici di autori contemporanei. Passa poi alla scuola del Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e infine, di nuovo a Roma, con Eduardo De Filippo.

All’inizio degli anni ‘50 la svolta, dopo una lunga gavetta che ne forgia la duttilità d’interprete: con gli amici Paolo Ferrari e Gianni Bonagura si impone alla radio in siparietti leggeri, tra varietà e commedia musicale (conosce bene le note, sa suonare e cantare). Alla radio trova altri maestri come Vittorio Metz, Dino Verde, Marcello Marchesi che ne intuiscono il talento comico, specie nelle controscene. Alla fine del decennio conquista il Teatro Sistina con “Un trapezio per Lisistrata”, partner di Delia Scala, e poi trionfa nel 1962 con “Rugantino”, sempre grazie a Garinei&Giovannini. Benché il teatro rimanga per tutta la vita l’amante segreta, il cinema diventa la sua vera casa fin dalla fine degli anni ‘40 con commediole regionali senza pretese. Alla metà degli anni ‘50 ha la prima occasione reale con Antonio Pietrangeli e Mauro Bolognini ma il 1955 rimarrà fondamentale nella sua vita soprattutto per il matrimonio con l’adorata Erminia Ferrari, all’epoca indossatrice, che gli darà tre figli e sarà la sua compagna fino alla fine. Intanto a Cinecittà affina le doti recitative adatte a un cinema che sta lasciandosi alle spalle il neorealismo e porta un tono più leggero nella descrizione della gente comune. E’ un progetto che gli calza a pennello e saprà qui sviluppare una serie di caratteri immediatamente familiari allo spettatore: il provinciale timido, il contadino astuto, il piccolo borghese in cerca di fortuna, il giovane e impacciato spasimante.

Negli anni ‘50 lo scopre anche la televisione, la mitica “Canzonissima” di Antonello Falqui in cui trascinò per una sera anche l’amico ed ex compagno in accademia, Marcello Mastroianni, ma Manfredi arrotonda i magri guadagni con buone doti da doppiatore. Proprio la popolarità televisiva lo impone nel cast di un sequel celebre come “Audace colpo dei soli ignoti” (Nanni Loy, 1959). Il decennio successivo promuove finalmente Nino Manfredi tra i “colonnelli” del cinema grazie alla crescente popolarità della commedia all’italiana. Da “Anni ruggenti” (1962) a “Nell’anno del Signore” (‘69) è un costante crescendo che va di pari passo con l’affermazione dei suoi registi preferiti, da Dino Risi (“Straziami, ma di baci saziami”) a Ettore Scola (“Riusciranno i nostri eroi”).

E’ però legato agli anni ‘70 il momento d’oro dell’attore che diventerà anche regista e sceglie in piena libertà le sue maschere: il “mostro” Girolimoni per Damiano Damiani; l’emigrante di “Pane e cioccolata” per Franco Brusati, il baraccato di “Brutti, sporchi e cattivi” ancora con Scola, il prete di “In nome del Papa Re” con l’amico più caro, Luigi Magni. Dietro la macchina da presa si afferma subito con l’autobiografico “Per grazia ricevuta” nel 1971, ma aveva fatto le prove generali da regista dieci anni prima con lo splendido “Avventura di un soldato”, episodio interamente muto nel film a più mani “L’amore difficile”. Sempre negli anni ‘70 partecipa a due delle avventure cinematografiche più belle della sua carriera: con Luigi Comencini crea un indimenticabile Geppetto per la versione televisiva di “Pinocchio” (1972) e due anni dopo con Scola dà vita a quel ritratto corale di una generazione che chiude un’epoca della commedia all’italiana grazie al magico incontro fra lui, Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli e Stefano Satta Flores sul set di “C’eravamo tanto amati”.

Grazie al successo in tv accetta adesso di frequentarla più spesso e si impone anche come cantante portando nella hit parade “Tanto pe’cantà”, versione rivisitata del classico di Ettore Petrolini, e poi calcando il palcoscenico di Sanremo; dagli anni ‘80 in poi invece la sua carriera diventa randomica: ritrova il teatro con un paio di testi da lui stesso scritti e diretti, abbraccia la pubblicità diventando un’icona grazie al talento di Luciano Emmer e all’incantevole coppia con la “nonnina” Nerina Montagnani per una marca di caffè. Sullo schermo appare sempre più distrattamente anche se il suo canto d’addio (nel 2003, “la fine di un mistero” con la regia di Miguel Hermoso) gli è valso le lodi della critica e il Premio Bianchi alla mostra di Venezia. Subito dopo la fine delle riprese un ictus lo porta in fin di vita e, dopo un rapido succedersi di miglioramenti e ricadute, Manfredi muore a 83 anni il 4 giugno del 2004. Quattro anni fa la Rai, grazie alla regia del figlio Luca, gli ha dedicato un bel film per la tv con Elio Germano: “In arte Nino” che lo ritrae negli anni della formazione, tra il 1939 e il 1959. L’interpretazione di Germano resta il più bell’omaggio del nostro cinema a un artista che ha avuto tutti i maggiori premi nazionali, ma che forse meritava un omaggio internazionale.

“Papà non era romano, era un ciociaro emigrato a Roma che lui considerava la sua città d’adozione. Poi avendo fatto molti film sulla Roma papalina Magni lo chiamava ‘il ciocioromano’ - ha detto Luca -. Papà ha amato tantissimo il suo lavoro, ha dedicato la sua vita a questo mestiere, noi come figli lo abbiamo avuto un po’ meno. In occasione di questi 100 anni, gli ho dedicato un libro che si intitola ‘Un ‘friccico ner core’ e il documentario‘Uno nessuno cento Nino’.‘Friccico ner core’ è un frammento della canzone scritta da Petrolini che mio padre portò a Sanremo nel ’70 come cantante ospite, una canzone solo apparentemente allegra. Con ‘Friccico nel core’ Petrolini alludeva anche al suo problema cardiaco, non solo sentimento dunque ma anche dolore. Un titolo che è anche la sintesi dei miei sentimenti contrastanti nel rapporto con mio padre da ragazzo: grande affetto e ammirazione ma anche il dispiacere di non averlo vissuto tanto a casa. Anni dopo ci siamo rincontrati nel mondo della pubblicità, lui era testimonial di un noto caffè, e da lì siamo passati a fare serie tv, film. C’è stata una compensazione, quello che mi è mancato come genitore l’ho recuperato come collaborazione artistica”.

La figlia Roberta ha voluto raccontare “un uomo che aveva un grande rispetto degli altri, dell’ambiente. Se c’era una carta per terra mio padre la raccoglieva, diceva sempre ‘al paese mio ognuno si spazzava il tratto di marciapiede davanti casa’. Aveva una grande rispetto del cibo, a casa mia non si buttava niente, era il primo a mangiarsi gli avanzi, il resto andava alle galline. Nel centro dell’Aventino noi avevamo un pollaio, lui ci parlava con queste galline. Era un essere umano speciale”.