Non vogliamo mettere paura ai nostri lettori, ma dobbiamo essere consapevoli di quello che succede senza nasconderci dietro a un dito.
Mai in passato una circostanza era stata tanto grave da obbligare i vertici di un Paese a riunirsi d’emergenza di domenica per procedere alla vendita repentina di un istituto bancario. Questo è quanto accaduto a Credit Suisse, seconda banca svizzera per importanza, con le azioni che alla fine della scorsa settimana sono crollate a causa dell’elevato rischio di bancarotta. Situazione incredibile in cui la volontà degli azionisti non è stata nemmeno presa in considerazione e, per il cosiddetto “bene comune”, è stata presa la decisione di cedere gli asset per un valore di circa 3 miliardi di dollari a UBS, la più grande banca svizzera.
In molti si sono chiesti cosa serva essere azionisti di un’azienda se poi non si viene minimamente interpellati quando vengono prese decisioni vitali per la sopravvivenza della stessa. Essendo a conoscenza dell’imminente rischio di bancarotta, la Banca nazionale svizzera si è pertanto accordata con il regolatore FINMA per coadiuvare l’accordo tra Credit Suisse e UBS e rilasciare l’annuncio prima dell’apertura delle Borse del lunedì. Questo è un fenomeno che sta avvenendo anche in altre parti del mondo, con istituti minori che vengono inglobati da banche più prestigiose per evitarne il fallimento. Ciò non vuol dire che le grosse banche non siano a rischio (vedasi i recenti scricchiolii da parte di Deutsche Bank); l’unica differenza è che queste sono considerate troppo importanti per fallire e le Banche centrali sono finora sempre state pronte ad intervenire in loro soccorso.
La Federal Reserve americana sta infatti lavorando di comune accordo con altre Banche centrali in giro per il mondo (Bce, GB, Canada, Giappone e Svizzera) per aumentare la liquidità a supporto del settore e tentare di prevenire un’escalation della crisi. Secondo un’analisi fatta da alcuni economisti ci sarebbero almeno altri 180 istituti negli Stati Uniti a rischio insolvenza se anche solo la metà dei correntisti decidesse prelevare.
Questo progetto di aumentare la liquidità per evitare il collasso del sistema sta a significare che il piano di riduzione dell’inflazione andrà a farsi benedire, con un costo ingente sulla vita di tutti noi. Agli occhi dei bitcoiner più incalliti, gli eventi degli ultimi tempi sono la conferma che l’attuale sistema è malato e destinato a fallire. Senza addentrarci in estremismi, va detto che in effetti è innegabile che utilizzare Bitcoin e la sua blockchain continua a voler dire di scegliere di non avere intermediari per la custodia dei propri averi. Al di là del concetto di riserva di valore alternativa all’oro, Bitcoin sembra stia diventando sempre più, per molti, un modo per sfuggire al controllo totale sul valore dei nostri risparmi da parte delle Banche centrali. Se prima questo avveniva solo in Paesi martoriati da un’inflazione fuori controllo come Venezuela o Argentina, ora sembra interessare anche il cosiddetto “primo mondo”.
Da sottolineare, inoltre, a mero titolo di cronaca, che correva l’anno 2017, quando un BTC valeva circa $7,000, e l’Ad di Credit Suisse affermò che Bitcoin non era un asset affidabile in quanto “definizione stessa di una bolla speculativa”. Quando si dice destino beffardo.
Ricordiamo che questa non è una rubrica di consigli finanziari o di investimento di alcun tipo; cerchiamo soltanto di analizzare il mondo delle monete digitali con l’obiettivo di renderlo più comprensibile a tutti.