Una delle maggiori sfide per me, nell’affrontare questo articolo, è il fatto che probabilmente non racconterò nulla di nuovo ai lettori della rubrica Italiani brava gente, nella quale mio padre, Pietro Schirru, amava raccontarsi e raccontare quello che aveva vissuto in Italia, durante la guerra e il dopoguerra, e in Australia, dagli anni del governo Whitlam.
La nota di Italiani brava gente che avrebbe voluto scrivere, la rubrica settimanale pubblicata sulle pagine de La Fiamma e Il Globo, sarebbe stata sui suoi cinquant’anni in Australia, e come l’aveva vista crescere, evolversi, cambiare nel bene e nel male.
Papà arrivò in Australia il 15 giugno del 1972, assieme alla compagna Paola Filibek – che di lì a pochi anni, dopo il passaggio della legge sul divorzio in Italia, sarebbe diventata sua moglie – e i loro figli, Lorenzo e Michela, che erano bambini.
L’idea di andare all’estero per papà era ricorrente. Alla fine degli anni ’60, era andato in Libia, ma fu costretto a rientrare quando scoppiò il colpo di Stato.
Nato a Roma, il 29 marzo 1933, Pietro Schirru è cresciuto sotto il fascismo e, forse questo farà sorridere chi lo conosceva, è stato figlio della ‘lupa e balilla’, e nel 1943, compiuti i 10 anni, è stato promosso trombettiere, anche se la tromba non la sapeva suonare.
A casa erano tanti: padre, madre e sette figli. Il padre Enrico, conosciuto come Riccardo, era impiegato al ministero della Giustizia a via Arenula, e gli Schirru abitavano dietro al palazzo, in via San Paolo alla Regola.
In Italia, oltre all’amore per lo sport – il calcio, ma soprattutto l’atletica leggera – e per tutto ciò che è cultura, il giovane Pietro lavorava alla Banca Monte dei Paschi di Siena, dove veniva guardato con diffidenza dai dirigenti per la sua attività sindacale e il fatto che leggeva l’Unità.
Ricordo ancora i suoi racconti di quel periodo.
Prima di partire per l’Australia, lavorava presso le Edizioni Paoline, una casa editrice cattolica; lui che era un ateo convinto – “Credo nel raziocinio, nelle cose che vedo, che posso raccontare”, amava dire –, da quando aveva ‘mandato a quel paese’ un sacerdote durante la confessione, e proprio grazie a quel lavoro, aveva un contatto all’ordine dei Gesuiti a Sydney, che lo avrebbe introdotto ai frati cappuccini, allora proprietari de La Fiamma. Al suo arrivo, però, il giornale era stato rilevato da Evasio Costanzo, che lo ha assunto solo alla fine del 1972, nel ruolo di redattore sportivo.
Le esperienze giornalistiche di papà sono state tante, anche perché in quegli anni i giornali italiani erano di più. Da La Fiamma, il cronista Pietro Schirru è passato a Il Globo, che aveva una redazione a Sydney; poi ha lanciato La Voce, un trisettimanale, in competizione con le altre due testate. Poi è stata la volta di Gente d’Italia a Sydney ed Ecco a Melbourne. In mezzo in quegli anni di grandi cambiamenti, c’è stata anche l’SBS, dove ha iniziato a collaborare con il programma in lingua italiana, grazie a quella voce calda e pastosa, modulata da tante, troppe sigarette.
Dopo la sua scomparsa, parlando con mia sorella Michela, ricordando quel periodo emblematico di nostro padre, fatto di edizioni speciali sul rapimento o la morte di Aldo Moro, ad aspettare che uscisse la prima copia ancora sporca d’inchiostro dalla rotativa, e poi la sua mitica pasta al burro e Parmigiano per celebrare alle cinque del mattino, non abbiamo potuto far altro che constatare il suo grande coraggio, la sua voglia di fare.
Il giornalismo, al quale si era avvicinato con degli articoletti di atletica leggera per il Corriere dello Sport, è stato sicuramente la sua passione, ma papà ha fatto altri lavori in Australia. Per molti anni è stato dirigente e presidente del patronato Ital-Uil, e membro del Cgie, il Consiglio generale degli italiani all’estero. In entrambi i ruoli ha potuto svolgere attività politica e sociale, come lo aveva fatto negli anni in cui era stato presidente della Filef, la Federazione italiana lavoratori e famiglie. Dal 2004 al 2018, inoltre, è stato consultore della Regione Sardegna, e coordinatore dei circoli sardi in Australia, lavorando su numerosi progetti regionali a carattere culturale.
Più di ogni altro luogo al mondo, penso di poter dire, senza alcuna ombra di dubbio, che amasse Roma in tutte le sue sfaccettature, anche le peggiori. Adorava il cinema, e per anni, da bambino, nelle sue escursioni a Milano per venirmi a trovare (i miei genitori si erano separati nel 1960 e io vivevo con mia madre), ho visto Western e cartoni animati a volontà, anche se a lui magari sarebbe piaciuto un film d’autore, più impegnativo.
I suoi gusti letterari sono passati dai classici ai gialli, che amava, una passione che ha trasmesso anche a me, facendomi conoscere gli investigatori dell’87º Distretto di Ed McBain, rivelandomi che Steve Carell, dell’edizione italiana, era in effetti ‘Steve Carella’, un poliziotto italo-americano.
Per anni ci siamo scambiati titoli di gialli che ci erano piaciuti; negli ultimi anni soprattutto quelli italiani: da Camilleri a Carlotto, da Lucarelli a Di Giovanni.
I ristoranti, quando ancora gli piaceva mangiare nell’asse Sydney-Melbourne-Roma, erano la sua meta preferita.
A Sydney ricordo cene deliziose da ‘BBQ King’, un vecchio ristorante cinese, e poi le sue ultime scoperte, nel corso degli anni: ‘Da Marta’, dove facevano cucina romana, anche la cacio e pepe, ancora in tempi non sospetti, e ‘Italian Bar’, una pizzeria piena di vita, musica e allegria, oltre che di buonissime pizze, a Paddington, gestita da due fratelli di origine sarda e toscana, un po’ come lui, che aveva un padre di San Nicolò Gerrei, in provincia di Sassari, e una madre – Angela – di Castell’Azzara in Maremma.
L’ultima volta che papà è stato in Italia, siamo riusciti a riunirci, diverse generazioni di Schirru dall’Australia e dall’Italia, sotto un tramonto, a ridosso di un acquedotto romano. Non penso di averlo mai visto così contento.
Come padre è stato un maestro buono, che ha permesso a noi tre figli di commettere errori, aiutandoci poi, almeno nel mio caso, a risolverli. Penso di condividere il pensiero dei miei fratelli nel dire che non ha mai passato un giudizio su di noi, che ci ha lasciato agire e trovare noi stessi.
Dopo la morte della moglie, Paola, ha avuto un comprensibile momento di incertezza, di sbandamento, ma ha anche avuto la fortuna di incontrare – innamorandosene ricambiato – Maria Luisa Scala, una donna fondamentale per lui, per gli ultimi quarant’anni di una vita ancora non vissuta a pieno. Quelli di Maria Luisa e papà sono stati anni pieni di soddisfazioni, viaggi, avventure. Con lei è arrivata la sua famiglia: le tre figlie – Cristina, Daniela e Elisa –, i loro mariti e altri nipoti, oltre ai 10 avuti dal suo ramo della famiglia, tutti orgogliosi di chiamarlo ‘nonno’.
Per papà, che aveva instaurato un rapporto fantastico con i miei figli – Alessia, Andrea e Marco –, nonostante la lontananza tra Melbourne e Sydney, e con le figlie di mia sorella, Ella e Livia ad Adelaide, e in giro per il mondo (“Beate loro!”, avrebbe detto lui), è stata una passeggiata di salute, stringere un contatto con i figli di mio fratello – Gianni, Dominic, Lili, Ruby e Alec – che vivevano dall’altra parte della baia di Sydney.
A parte attingere alla mie memorie, per scrivere questo ‘coccodrillo’ (come si dice in gergo), molto personale, ho ascoltato un’intervista che il ‘cronista’, colui che riporta i fatti, come accadeva all’epoca nel giornalismo australiano – “Perché in Italia chi aveva la fortuna o la sfortuna di lavorare in un giornale esprimeva più le sue opinioni che elencare i fatti”, ha detto – aveva concesso quando aveva 86 anni, all’amica e collega Luisa Perugini che, verso la fine della conversazione, gli ha chiesto se avesse paura di morire.
“No, non ho paura di morire; ho paura di soffrire – aveva risposto –, perché sapere di morire e soffrire mi sembra un’aggravante che preferirei evitare”.
Papà non ha sofferto; lo so perché ero con lui. Ho trascorso gli ultimi 10 giorni della sua vita con lui ed è stato un privilegio, e no, non ha sofferto.
Il giovedì prima della sua morte, è venuto a pranzo un vecchio amico e collega di papà, Claudio Marcello, ex Fiamma ed SBS e ora corrispondente dell’agenzia di notizie ANSA, in Australia. Tra una chiacchiera e l’altra è venuto fuori il soggetto dell’ultimo articolo Italiani brava gente, pubblicato sulla longevità dei sardi e il fatto che avesse chiuso il pezzo scrivendo: “Finché c’è vita, c’è speranza”.
Claudio, ridendo, gli ha detto che avrebbe dovuto seguire l’esempio di Marcella Cadoni, centenaria, la quale ogni domenica va a Messa, di sera recita il Rosario e legge il Messaggero di Sant’Antonio, venendo apostrofato dal vecchio Schirru con un sonoro: “Vaffa!”.
Il giorno della sua morte, Michela e io siamo andati a casa di Lorenzo e Kylie, abbiamo parlato tanto, brindato e ricordato papà. Il giorno dopo, in un’atmosfera un po’ più sobria, ci sono venute in mente le favole che ci ha raccontato, e la Ninna nanna che ci cantava, che danno la cifra della coerenza dell’uomo che è stato.
Le favole erano quelle di un cagnolino piccolino, sempre affamato, che si chiamava Briciola, e le sue disavventure con un cane grosso e cattivo che lo angustiava, di nome Mussolini. La Ninna nanna che si era inventato faceva così: “Io vi insegno l’anarchia, io v’insegno la libertà, e voi altri vita mia, ricordatevi papà”.