Per i laburisti la partita è tutta in salita, l’avversario al momento è nettamente in vantaggio e, se l’economia continuerà a crescere, riprenderlo prima delle prossime elezioni diventa piuttosto improbabile. La pandemia ha decisamente aiutato Scott Morrison che, comunque, ci sta mettendo anche del suo per tenere a debita distanza l’alternativa Albanese che, nonostante l’esperienza, l’affabilità, il ‘giusto’ passato per un leader laburista (umili origini, madre sola, infanzia nelle case popolari), non ha sicuramente trovato le misure per ridurre il distacco che lo separa dal primo ministro. Morrison ha dalla sua la ‘naturalezza’, l’essere – come ha fatto osservare l’ex eminenza grigia laburista ai tempi di Hawke e Keating, Graham Richardson - il vicino di casa che tutti vorrebbero avere.
Esperto di marketing, Morrison sa quanto importante sia l’immagine anche in politica ed è conscio della fortuna di avere quella del padre di famiglia, a contatto con la vita di ogni giorno che, quando serve, sa però prendere decisioni difficili. Si trova, quindi, perfettamente a proprio agio sia nei panni del tifoso allo stadio, con cappellino della squadra del cuore e birra in mano, che in quelli del primo ministro, capace di difendere gli interessi della nazione. E, pertanto, fino a quando il coronavirus rimarrà sotto controllo e l’economia continuerà a tenere il passo, magari a ritmi ancora più soddisfacenti di quelli che si poteva immaginare dopo la forzata, abbastanza breve (con l’eccezione del Victoria), ibernazione pandemica, sarà difficile per Albanese lasciare qualsiasi segno.
Il clima politico è proprio quello che gli australiani amano: dibattito minimo, toni più che civili, il timone in mani sicure e, sul ponte di comando, non solo un primo ministro che lascia dormire sonni tranquilli, ma anche un braccio destro che sembra essere altrettanto affidabile. Josh Frydenberg è, infatti, un altro politico che dà l’impressione di saper parlare agli elettori, che riesce a districarsi anche nelle situazioni più difficili, rassicurando e lasciando trasparire la sicurezza e la competenza necessari, un po’ come era stato Peter Costello al fianco di John Howard.
Il ‘non preoccupatevi, siete in buone mani’ è la formula ideale per assicurarsi consensi, quando serve, per qualsiasi governo e leader australiano: era stata la chiave vincente dei prolungati successi di Hawke e Howard perchè gli australiani, in generale, non sono proprio amanti della politica con le sue complessità, e la loro attenzione a tempo limitato, ogni tre o quattro anni - a seconda degli appuntamenti federale o statali -, è più che altro dovuto all’obbligatorietà del voto. Nel New South Wales avevano provato alcuni anni fa, a livello locale, a proporre la libertà di scelta, dando l’opportunità di non recarsi alle urne. Solo l’11 per cento degli aventi diritto aveva mostrato interesse ad esprimere un giudizio (anche se nella fascia degli enti locali non è facile lasciarsi coinvolgere): l’esperimento comunque non ha funzionato e l’obbligatorietà non è più stata messa in discussione.
Disturbo minimo, mani sicure, una certa dose di naturale simpatia, o perlomeno bassi livelli di antipatia, e si parte già con un notevole vantaggio. Morrison ce l’ha. Poi arrivano i test, e le emergenze di solito funzionano a favore di chi le deve affrontare: dopo gli incendi, il coronavirus. Il primo ministro costretto a prendere in mano la situazione e la nazione dietro a lui, con l’opposizione forzata ad annuire e approvare senza diventare un ostacolo in più. Scelte veloci, provvedimenti in linea di massima buoni (da manuale, e il manuale non c’era, il WorkKeeper), una solida base finanziaria, una discreta dose di fortuna, un po’ geografica (una grande isola da difendere) un po’ ambientale (bassa densità demografica, clima, stagioni che seguono quelle dell’emisfero nord e dell’inizio pandemia) e i ‘danni’ di un evento senza precedenti sono stati, e ci si augura possano rimanere, meno devastanti che in tanti altri Paesi.
Situazione interna quindi sotto controllo, ma la pandemia, da un punto di vista politico, un risvolto estremamente negativo l’ha avuto e continua ad averlo sul fronte estero, con tensioni che non sembrano attenuarsi con il partner commerciale più importante, vitale per il Paese: la Cina – con il pretesto di quella richiesta un po’ avventata in diretta tv, del ministro degli Esteri Marise Payne, di far partire un’inchiesta mondiale sulle origini del Covid-19 - ha deciso di far pesare il suo ruolo di vera potenza mondiale, di mettere davanti agli occhi di Canberra la realtà del ‘nuovo ordine’ con cui dover fare i conti. E Morrison, anche la scorsa settimana, ospite a distanza di una ‘think tank’ britannica, e certo che il suo intervento sarebbe arrivato fino alle orecchie di Xi Jinping, ha sottolineato che l’Australia non diventerà mai lo ‘sceriffo dell’America’ nell’area dell’Indo-Pacifico e che a Canberra non si prenderanno mai decisioni che diventino scelte tra Washington e Pechino.
Secondo messaggio all’insegna della distensione, dopo quello inviato, una settimana prima, da Frydenberg su priorità, indipendenza, reciproci vantaggi e ritorno al dialogo, senza rinunciare a fondamentali principi di sicurezza e interessi nazionali. Nonostante i passi nella ‘giusta direzione’, non passati inosservati a Pechino, sono arrivati due ulteriori irrigidimenti commerciali su carbone e vino australiano (servizio a pagina 12) che vanno a sommarsi a tutta una serie di mosse, chiaramente politiche, che rientrano in una strategia internazionale che non dovrebbe sorprendere più di tanto. Una strategia che riguarda anche l’Australia. Non dovremmo, insomma, sorprenderci più di tanto del fatto che la Cina stia semplicemente comportandosi come la superpotenza che è diventata. Che sta facendo quello che ai tempi della guerra fredda hanno sempre fatto gli Stati Uniti e la vecchia Unione Sovietica, cercando di guadagnare spazi e imporre un certo controllo al di fuori dei loro confini.
La Cina sta mettendo in mostra i suoi ‘muscoli’, probabilmente accelerando la sua determinazione a tenere il punto dopo le sfide lanciate dall’amministrazione Trump (Joe Biden cambierà sicuramente i toni, ma non necessariamente direzione), che hanno trascinato nella mischia l’Australia. Morrison ha rifiutato l’idea di trovarsi nel bel mezzo di una nuova guerra fredda, ma potrebbe sbagliarsi. Meno armi e più economia, ma il braccio di ferro con gli Usa c’è e Trump non ha di certo aiutato la causa con le sue accuse e le sue sbandierate intenzioni di ‘contenere’ l’espansione cinese nel mondo.
Il primo ministro ovviamente si è guardato bene, anche durante la superpubblicizzata accoglienza alla Casa Bianca, di accodarsi e ha sempre cercato di usare toni molto più diplomatici, senza però rinunciare a scelte che Pechino non ha indubbiamente gradito su imprescindibili interessi nazionali, anche perché c’è una politica di casa da non perdere d’occhio: l’ha dimostrato, una volta di più anche ieri, il ministro del Commercio Estero (oltre che delle Finanze e del Turismo), Simon Birmingham, in un’intervista televisiva, rifiutandosi di alimentare nuove tensioni ma confermando i possibili ricorsi all’arbitro indipendente dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (World Trade Organisation) in fatto di dazi e accordi di libero scambio non rispettati dalla Cina.
Massima attenzione a non regalare nuovi motivi di scontro, anche perché lo squilibrio tra gli interessi delle due nazioni è a favore di Pechino, ma nessun indietreggiamento: più del 25 per cento di tutte le esportazioni australiane finiscono in Cina (100% della produzione di nickel, 83% di quella di ferro, 95% di legname, 77% di lana). L’Australia, dal canto suo, è meta solo del due per cento dell’export cinese. I principi sono importanti ed è giusto farli rispettare, ma i numeri parlano abbastanza chiaro.
La Cina è una grande potenza sotto tutti i punti di vista, sta agendo e chiede di essere riconosciuta come tale. Può non piacere, ma bisogna agire di conseguenza: nessuna rinuncia a valori che non devono essere messi in discussione, ma pazienza, dialogo e, soprattutto, riconoscimento di una nuova realtà globale sono altrettanto fuori discussione.