L’enogastronomia italiana è senza dubbio una delle più importanti e amate al mondo. Ma è anche una delle più antiche e, a distanza di millenni, sembra esser cambiata solo in qualche suo aspetto.
Questo e altro quanto è stato discusso in un recente seminario, ‘Pickled Lettuce, Boiled Pigeon & Amber Wine: Eating Like a Roman’, tenutosi al Co.As.It. a Carlton, in occasione della Settimana nazionale dell’Archeologia, e nato dalla collaborazione con l’Università di Melbourne e il Museo Ellenico. La presentazione è stata magistralmente condotta dalla professoressa Tamara Lewit, che ha reso digeribili argomenti culinari vecchi millenni, catturando anche l’attenzione dell’unico bambino presente in sala.
Lewit è un membro onorario della School of Historical and Philosophical Studies presso l’Università di Melbourne e della Society of Antiquaries of London, oltre che un’appassionata ricercatrice e divulgatrice della storia degli antichi romani e dell’antichità tardiva. Vanta anche collaborazioni artistiche con la sorella, la nota autrice Anna Ciddor, avendo contribuito a due dei suoi romanzi per bambini, ambientati in epoca romana.
“Come possiamo sapere cosa mangiavano davvero le persone duemila anni fa? Fortunatamente, abbiamo una raccolta di ricette d’epoca romana che ne comprende 500. La collezione è conosciuta come De Re Coquinaria”, ci spiega Lewit in apertura.
Grazie a questa raccolta, si ha la certezza che gli antichi romani siano stati di fatto i precursori della dieta mediterranea, famosa per il suo uso di prodotti alimentari freschi quali carne, pesce, vegetali e frutta, oltre a una grande quantità di legumi, cereali e olio in abbondanza.
Al suo massimo splendore, i confini dell’Impero romano erano così vasti da comprendere tutta l’area mediterranea, la costa settentrionale dell’Africa, gran parte dell’Europa e perfino l’Inghilterra. “Ci viene da chiederci, quindi, se tutte queste popolazioni furono ‘conquistate’ anche dal cibo romano, oltre che dall’esercito. Quello che successe non è troppo diverso da quello che è riuscito a fare il McDonald’s ai giorni nostri!”, precisa Lewit, offrendo un simpatico paragone con la nota catena americana di fast food, che sebbene abbia un menù ben delineato e simile in tutto il mondo, presenta delle variazioni locali.
Per esempio, la tipologia di carne consumata in epoca romana, di solita bollita, variava a seconda del Paese. La carne suina era molto popolare in Italia, perché il maiale si riproduce molto rapidamente e si presta bene a essere salato e stagionato, cosa che risultava utile nei grandi spostamenti legionari, dove la conservazione del cibo era essenziale. “Dai reperti delle tavolette di Vindolanda, sappiamo di un accampamento romano situato sul Vallo di Adriano, in Scozia, che riporta un pagamento da parte del centurione Felicio per 45 libbre di bacon. Invece, i resti animali rinvenuti in un sito archeologico in Turchia, in una zona molto montuosa e brulla, ci indicano che, naturalmente, pecore e capre erano più adatte a questo tipo di condizioni geografiche e climatiche”.
Come nella tipica cucina toscana, anche le interiora di animali erano molto apprezzate e condite con erbe aromatiche e spezie, quali cumino, menta, coriandolo, timo, origano, salvia e una salsa salata di pesce fermentato. Quasi a richiamare quella idea di curry moderno, servito con un twist.
Gli antichi romani erano anche grandi consumatori di pesce e, a differenza dell’odierna popolazione mondiale, che ne consuma appena un 10%, in quell’epoca si arrivava al 30%.
“Recentemente, è stata condotta un’analisi del collagene osseo di persone comuni vissute a Ercolano e si è scoperto che le donne mangiavano più carne, mentre gli uomini più pesce, forse anche perché erano pescatori, come abbiamo dedotto dalle loro tipiche patologie ossee. Chi mangia molto pescato presenta (in un’analisi usata nell’archeologia, così come in altri campi, ndr) dei rapporti isotopici diversi nelle ossa, rispetto a chi mangia molta carne. Dopotutto, siamo ciò che mangiamo”.
Come sopra accennato, l’olio era largamente utilizzato, sia nella cucina, dalla semplice conditura fino alla preparazione dei dolci, sia come base di profumi. Durante la sua produzione, dove le olive venivano macinate in mulini di pietra molto simili a quelli usati in Europa e nell’area mediterranea nei due secoli precedenti al nostro, non si sprecava niente.
“Dopo la spremitura e la decantazione, l’olio lasciava un residuo vegetale, molto maleodorante sul fondo, che i romani usavano come insetticida, fertilizzante, lubrificante e conciatura per il cuoio. I semi schiacciati venivano usati come combustibile. In recenti anni in Spagna, c’è stata un’iniziativa per utilizzare gli scarti delle olive, che sono sempre in eccesso, come biocarburante per alimentare aerei”, continua Lewit, evidenziando come le idee d’epoca romana siano ancora così attuali.
Per quanto riguarda il vino, le prime prove concrete della sua produzione in Italia risalgono al terzo millennio a.C.
All’epoca, il vino era visto come la bevanda essenziale nella dieta giornaliera delle persone, proprio a causa dell’alta concentrazione di patogeni e parassiti nell’acqua. “L’alcol, come sappiamo, sterilizza il pH del vino, è anche antibatterico e i romani, così come i greci, bevevano il vino in grande quantità e diluito. Addirittura, i dottori dell’epoca raccomandavano che i neonati venissero svezzati con pane imbevuto in vino”.
Metodi di vinificazione – quali la fermentazione in anfore di terraccotta sotterrate, al riparo dal calore e per mantenere una temperatura di fermentazione stabile e controllata – sono ancora oggi usati da molti dei cosiddetti “produttori di vino naturali”.
Una cosa che gli antichi, però, non riuscivano a spiegarsi, era come il vino si potesse trasformare in aceto, o ammuffire, e diventare di fatto imbevibile. Una delle tante soluzioni adottate al tempo, come raccontava il poeta Plinio, era l’uso della polvere di marmo, resina di pino, conchiglie schiacciate, fino ad arrivare ai sacrifici agli dei. E quando non si potevano correggere questi difetti nel vino, la bevanda guastata veniva destinata alle categorie più povere della popolazione. Infine, mischiato a ingredienti come l’assenzio, le lumache macinate e lo sterco di piccione, era anche utilizzato come medicinale.
Cibo e vino erano anche una parte essenziale dei riti funebri e, in molte tombe rinvenute, si possono notare dei buchi, attraverso i quali il vino veniva versato direttamente, affinché il familiare defunto ne potesse godere anche nella sua vita ultraterrena.
C’erano poi gli immancabili momenti di festa con tanto di lussuriosi banchetti, scorci di vita che molti di noi avranno sicuramente ammirato nei tanti dipinti dell’epoca o immaginato guardando i film storici, come il classico Satyricon di Federico Fellini.
I banchetti organizzati dalle fasce benestanti della popolazione si tenevano nel triclinium, la sala da pranzo, una stanza che invece non esisteva nelle case della persone comuni. I commensali si sdraiavano sui triclinari, a piedi nudi e con indosso abiti molto comodi. Tutt’intorno, fiori, incenso e profumi, anche per distogliere l’attenzione dal forte odore della carne e del pesce esposti e privi di alcun tipo di refrigerazione. Presenti svariati danzatori, poeti e musicisti per offrire l’adeguato intrattenimento.
Le buone maniere “a tavola” prevedevano di “mangiare con le mani, la destra in particolare, mai sporgersi in avanti per prendere la prima porzione, masticare lentamente, non parlare mentre si mangiava, sorseggiare piccole quantità di vino alla volta e chiamare i servi con le parole, non con fischi o schiocchi di dita”.
La carne di fenicottero era considerata una prelibatezza, servita con porri, una salsa di pepe, cumino, coriandolo, menta pestata, aceto e datteri.
Per il resto della popolazione, invece, si mangiava in piedi e dove capitava, e soprattutto per chi viveva nelle metropoli, il cibo che veniva consumato era da asporto, acquistato per strada alle bancarelle. Per chi non aveva le possibilità economiche, gli alimenti base prevedevano uccelli selvatici, capre, lumache, frutta come le mele, cereali sotto forma di polenta d’orzo. “Pane e cereali venivano distribuiti, soprattutto per motivi politici, alle persone che contavano, cioè ai cittadini maschi che potevano votare. Sfortuna, quindi, se si nasceva immigrati o orfani di padre”.
Verrebbe quasi da dire, “trova le differenze".