Il concetto di design può esser tanto vasto quanto ristretto nei suoi scopi e risultati. La definizione, come si legge sulla Treccani, specifica come “nella produzione industriale, la progettazione (industrial design) miri a conciliare i requisiti tecnici, funzionali ed economici degli oggetti prodotti in serie, così che la forma che ne risulta possa rappresentare la sintesi di tale attività progettuale”.
Giorgia Pisano, originaria di Ospedaletto d’Alpinolo, in provincia di Avellino, e arrivata in Australia nell’aprile del 2016, è un’industrial designer fuori dagli schemi. Schemi che, spesso, vedono designer progettare prodotti, o spazi pubblici, senza realmente tenere conto di tutte quelle categorie marginalizzate di popolazione.
Pisano non è una hippie dei circoli universitari che viaggia su un minivan con il sogno nel cassetto di cambiare il mondo, anche se inizialmente era venuta in Australia per un’esperienza Working Holiday. La giovane designer vanta una laurea e un master in Ingegneria industriale, rispettivamente all’Università di Napoli Federico II e KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, con tanto di studi pratici in design manifatturiero e di arredamento conseguiti in Australia.
“Per me il design deve essere principalmente usato come una sorta di atto trasformatore per problemi sistemici e strutturali. Dovrebbe essere visto come un modo di pensare, come una filosofia di vita. Un’opportunità per democratizzare l’accesso a risorse e catalizzare la responsabilità sociale in maniera creativa e pratica – puntualizza Pisano –. Il mio dottorato era inizialmente incentrato sulla sostenibilità ambientale, in particolare sui materiali di scarto e la possibilità di utilizzarli in nuovi prodotti, in linea con l’economia circolare”.
Pisano ci spiega come nel sistema capitalistico in cui viviamo, come quello australiano, necessitiamo ancora di strutture adeguate in grado di riciclare tutti i rifiuti che produciamo. Rifiuti che, sfortunatamente, spesso vanno a gravare sulla schiena di quei Paesi sottosviluppati, come nel caso, in questa parte dell’emisfero, del Sud-est asiatico.
“Penso anche alle piccole cose di tutti i giorni, per esempio quando compri un giocattolo a tuo figlio che costa meno, perché di plastica e Made in China. Un giocattolo di legno sarebbe meglio, dura nel tempo, non inquina e, soprattutto, non è stato prodotto sfruttando manodopera minorile o sottopagata. Però, c’è un problema di accessibilità a livello finanziario di fondo e, quindi, quelle persone che comprano i giocattoli poco costosi stanno, involontariamente, contribuendo a tutte queste problematiche”.
Un cane che si morde la coda, secondo la designer campana, finché i governi di ogni Paese non attueranno norme atte a sradicare questo tipo di consumismo scellerato.
In meno di un decennio, Giorgia Pisano, grazie alla sua passione e alla preparazione accademica, è arrivata a gestire il programma triennale di Design industriale alla Monash University di Melbourne.
Un programma che però, ci racconta, esce fuori da quei famosi canoni del nozionismo che, forse, andrebbe attualizzato, considerate le esigenze ambientali e sociali, in continua evoluzione.
Tra i suoi studenti, Pisano ha persone neurodivergenti, con sindrome di Tourette, ADHD e autismo.
“Per quanto riguarda il design di spazi pubblici, in classe cerchiamo di creare delle zone di decompressione emotiva. Purtroppo, molte cose non si possono modificare, a meno che non vengano cambiate a livello centralizzato. È un po’ più difficile, però cercare di ricreare degli spazi all’interno dello spazio principale, quindi la classe, per favorire una differenziazione tra i vari bisogni dei miei studenti”.
Dal punto di vista sociale, Pisano ha introdotto delle metodologie didattiche che promuovano una connessione tra gli studenti e le loro diverse esigenze, favorendo sia un coinvolgimento mentale sia fisico, attraverso attività motorie dove gli studenti possano interagire con lo spazio che li circonda e decidere come organizzarlo, in modo da massimizzare il loro apprendimento scolastico.
“Si parla tanto di design universale, un design unico che vada a favorire tutti. Però è un’illusione. Bisogna lavorare con le persone e le comunità emarginate, e dare a loro spazio, una voce, creando soluzioni che siano adatte ai loro specifici bisogni. Spesso i designer hanno quella attitudine e propensione a disegnare per gli altri, invece dovremmo disegnare con gli altri”, continua.
Un design partecipativo, che appunto coinvolga l’intera comunità, è quello per cui Pisano si batte con convinzione.
La giovane designer collabora spesso con organizzazioni senza scopo di lucro, come ‘TOM (Tikkun Olam Makers): Melbourne’, un’organizzazione che lavora a stretto contatto con persone disabili, mettendole in diretta comunicazione con professionisti, tra i quali designer che con empatia e destrezza possano progettare qualcosa ad hoc per persone con diverse abilità.
Avviene poi la realizzazione di un prototipo, che potrà essere modificato fino a quando il bisogno specifico sarà soddisfatto.
“Ammiro tanto quest’organizzazione: hanno un’open source, un design aperto”, specifica.
Nell’open design – rappresentato dal famoso designer piemontese e precursore Enzo Mari –, il design creato è messo a disposizione della comunità, e nel caso di ‘TOM: Melbourne’ su una piattaforma online aperta a tutti. In tal modo, qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo, potrà scaricarlo gratuitamente e riprodurlo.
“Per esempio, come nel caso di una persona con un certo tipo di disabilità qui in Australia, che riceva il prototipo creato appositamente per loro, anche un’altra persona con la stessa disabilità in Africa ne può usufruire liberamente. Quindi non c’è brevetto, non c’è commissione, e ovviamente viene testato prima di essere messo online”, spiega Pisano.
Che lo si voglia o meno, il design tradizionale è destinato a diventare obsoleto “non per scelta etica o morale, ma per necessità, perché ovviamente le risorse ambientali sono limitate e quindi non possiamo continuare in questo modo”.