Un colpo secco, sferrato al cuore, per uccidere. L’assassino non aveva neanche i soldi per un pugnale e si era accontentato di far affilare una lima, che si era rivelata un’arma letale per la donna vestita di nero che passeggiava sul lungolago di Ginevra. Lui era l’italiano Luigi Lucheni; lei la tedesca, Elisabetta Amalia Eugenia di Baviera, imperatrice d’Austria-Ungheria. Quando l’omicida era stato bloccato e consegnato da alcuni passanti ai poliziotti svizzeri, aveva ostentato un sorriso e l’orgoglio di aver compiuto un gesto che l’avrebbe consegnato alla storia, giustificandolo col fatto che odiava i ricchi e combatteva le ingiustizie nel nome dell’anarchismo. Il 10 settembre 1898 si compiva il destino di Sissi, che entrava invece nella leggenda, consacrata nel XX secolo che non aveva fatto in tempo a vedere da film popolarissimi nei quali la sua figura veniva romanzata oltre ogni limite, dando di lei un’immagine mielosa e a colori, con il volto e le movenze di Romy Schneider. Aveva 60 anni e sulle spalle disillusioni e dolori accumulati in una vita apparentemente felice, da cui si era congedata regalmente: dopo il colpo sferrato da Lucheni era caduta a terra, si era rialzata e si era ripresa come nulla fosse. Solo dopo essere svenuta in hotel le avevano aperto il corsetto scoprendo che era in corso un’emorragia interna ormai non più affrontabile dai medici: la lima aveva forato il ventricolo sinistro del cuore. Sissi moriva senza riprendere conoscenza. Il marito Francesco Giuseppe dirà che a lui, la vita, non aveva risparmiato nulla, neppure la perdita della donna che aveva voluto come moglie nel 1853. Insieme avevano affrontato i venti della storia e quelli della tragedia familiare: prima la morte della principessa Sofia nel 1857 per malattia; poi nel 1889 a Mayerling, quella del principe ereditario Rodolfo, che secondo la versione più accreditata aveva prima ucciso l’amante Maria Vetsera e poi si era tolto la vita con grande scandalo pubblico e lacerante dolore privato. Da allora Sissi aveva sempre indossato abiti neri, non si era mai ripresa, era un’altra persona rispetto all’età giovanile fatta di allegria, insofferenza per l’etichetta e per gli schemi, ribellioni, colpi di testa, lunghe cavalcate e culto del corpo e della bellezza.

Matrimoni tra consanguinei e tare genetiche

Nelle sue vene scorreva il sangue dei Wittelsbach, che manifestavano tare genetiche dovute ai matrimoni tra consanguinei. Elisabetta era la quarta dei 10 figli del duca Massimiliano Giuseppe e Ludovica, e Francesco Giuseppe era suo cugino di primo grado. Allora, nelle case regnanti, si usava così. Quando l’imperatore si innamorò di lei invece della predestinata sorella Elena, Elisabetta aveva 16 anni. Per poter celebrare le nozze nel 1854 fu necessaria la dispensa papale. L’etichetta ingessata della corte di Vienna era una gabbia per la giovane sposa, alla quale venivano rimproverate la scarsa cultura, la riottosità ad adeguarsi e un carattere poco principesco, figuriamoci imperiale. Né lei fece molto per smussare gli angoli. Nonostante l’amore che la legava a Francesco Giuseppe, i rapporti con la suocera furono da subito aspri e finirono sistematicamente con l’acuirsi su qualsiasi aspetto, a partire dall’educazione e la cura dei figli.

Un carattere ribelle

La seconda metà del XIX secolo per l’impero asburgico scandiva l’irreversibile decadenza. La questione italiana e quella ungherese lo minavano dall’esterno e dall’interno, e già si manifestava l’irredentismo del mosaico di popoli slavi che lo componevano. Elisabetta aveva scoperto l’ostilità degli italiani e la freddezza dei magiari, ma mentre con i primi non c’era possibilità d’incontro, con gli ungheresi fu lei l’elemento di catalizzazione del consenso verso la monarchia. Il suo essere estroversa e fuori le righe da un lato accentuava l’ostilità della corte viennese e dall’altro le faceva guadagnare i favori popolari. Soffriva di sbalzi di salute, e oggi si ritiene fossero manifestazioni delle tare genetiche: suo cugino era Ludwig II di Baviera, personaggio di cui sono noti gli atteggiamenti psicotici, entrato nella storia per la sua follia e per aver disastrato le casse reali e statali con la sua infatuazione per Richard Wagner e il suo mondo mistico dell’opera; la sorella Maria Sofia, che era andata in sposa a Francesco II di Borbone, aveva dimostrato un carattere virile di fronte all’impresa di Giuseppe Garibaldi e all’invasione dei piemontesi di Vittorio Emanuele II che del marito incerto e indeciso era il cugino di primo grado. Anche di lei si disse e si scrisse di tutto, arrivando a realizzare osceni fotomontaggi pornografici pur di screditarla dopo aver perso il trono di Napoli e delle Due Sicilie.

La bellezza proverbiale e il mito della giovinezza

Elisabetta si era creata un mondo parallelo rispetto a quello che non le piaceva, dove non entravano i tradimenti del marito che continuava ad amare, le ingerenze della corte, le malignità e i dolori. Ancora una volta la felicità non stava nella ricchezza, nel rango e nel potere. Alcuni suoi aspetti fisici, prima ancora che caratteriali, erano diventati leggendari: i capelli lunghi fino alle caviglie, la sistematicità nel mantenere il corpo agile in palestra, la passione per lunghe camminate all’aria aperta e le sfrenate cavalcate che mettevano a dura prova le dame di compagnia e le scorte militari. La sua bellezza era proverbiale e lei faceva di tutto per mantenerla, attraverso diete e attenzione alla magrezza. Dopo la tragedia di Mayerling tutto cominciò a precipitare.

L’agguato sul lungolago 

Lucheni aveva sfogliato un catalogo di personalità dell’aristocrazia che frequentavano il lago di Ginevra. Il suo vissuto contemplava la nascita a Parigi nel 1873 da una ragazza-madre che l’aveva abbandonato in un orfanotrofio, il girovagare in Europa, poi l’esperienza in cavalleria nel Corno d’Africa, poi ancora una vita errabonda. In Svizzera voleva fare qualcosa di importante, che riteneva essere un regicidio o qualcosa di simile. Aveva scelto di uccidere il duca di Orléans ma questi era ripartito prima che potesse colpirlo. Un ex commilitone gli rivelò della presenza di Elisabetta giunta in incognito, e gliela descrisse. La aspettò il 10 settembre sul lungolago che lei stava percorrendo per imbarcarsi, nascondendo la lima in un mazzo di fiori. Condannato all’ergastolo, fu ritrovato impiccato alla sua cintura il 19 ottobre 1910, forse suicida, forse assassinato in carcere. Aveva fatto in tempo a scrivere le sue memorie. Elisabetta aveva espresso il desiderio di essere sepolta a Corfù, in Grecia, ma non le venne concesso, perché il suo posto era nella cripta dei cappuccini di Vienna dedicata agli Asburgo, dove l’avrebbe raggiunta Francesco Giuseppe e dove la Chiesa aveva eccezionalmente concesso di poter ospitare anche il corpo del figlio Rodolfo, perché omicida-suicida.