Coober Pedy (South Australia) - Nel cuore dell’outback australiano si nasconde una cittadina quasi irreale, la cui vita pulsante scorre sotto la crosta terrestre. Soprannominata “capitale mondiale dell’opale”, Coober Pedy si trova a metà strada tra Adelaide ed Alice Springs.
Circa 150 milioni di anni fa, l’immenso territorio circostante era ricoperto dalle acque di un oceano, sui cui fondali si andarono a depositare i minerali che si sarebbero poi trasformati nei coloratissimi opali. Nel territorio abitato per migliaia di anni da popolazioni nomadi aborigine, arrivarono nel 1916 i primi coloni europei, attratti dal richiamo delle pietre rare.
Nata per servire la più grande operazione di estrazione di opale nel mondo, la cittadina si è poi espansa in un agglomerato urbano sotterraneo, quando gli abitanti hanno cominciato a trasformare le miniere in abitazioni spartane, dette “dugouts”, per sfuggire alle temperature estreme del deserto. Scelta come location per decine di film, Coober Pedy è famosa oggi per i suoi paesaggi lunari, il suo passato ricco di storie e il suo presente altrettanto singolare. È soprattutto scendendo sotto la superficie terrestre che gli aspetti più affascinanti della comunità balzano agli occhi, in un labirinto di case, hotel, negozi, musei e chiese, scavate sottoterra nel corso degli anni.
I suoi circa 2500 abitanti sopravvivono grazie alle riserve di opale e all’afflusso di turisti curiosi. Nonostante la posizione isolata, Coober Pedy è composta da un ricco mosaico di culture diverse. Circa il 60% della popolazione discende dagli immigrati europei del secondo dopo guerra, ai quali in tempi più recenti si sono aggiunti i nuovi arrivati da Pakistan, India e Sri Lanka. Sono almeno 45 le nazionalità rappresentate, come dimostrano anche i molti club sociali e culturali, tra cui quelli serbi, greci e croati.
C’è anche l’Italo Australian Miners Club, fondato nel 1964 e ancora attivo, grazie all’impegno incessante di alcuni volontari. Uno di questi è il 73enne Robert (Bob) Del Tedesco, residente a Coober Pedy da moltissimi anni, il primo ad avere in concessione il club, di cui è stato anche manager.
Cresciuto con i sei fratelli e i genitori, di origine veneta e friuliana, a Campbelltown, una zona di Adelaide con una forte impronta italiana, dove la famiglia aveva un negozio in cui i vendeva i prodotti dell’orto e anche una macelleria, Bob racconta di come la madre Augusta fosse sempre al servizio della comunità: “Era una santa: faceva da interprete per tutti gli altri italiani, per prendere appuntamenti dal dottore e per tante altre faccende”.
Il padre Fiore era invece un appassionato minatore, tanto che portò la famiglia a vivere per un paio d’anni in una tenda a Harts Range, a nord-est di Alice Springs, per cercare la mica, un minerale usato un tempo nella fabbricazione di elettrodomestici come forni a microonde e tostapane, per la sua resistenza al calore.
“Ci saranno stati almeno 200 minatori italiani, suddivisi in piccoli gruppi”, spiega Del Tedesco. Quando la mica venne sostituita con materiali artificiali, il settore minerario perse valore e la famiglia tornò a Campbelltown.
“Coober Pedy era di strada da Harts Range. I minatori si resero conto che c’era la possibilità di fare soldi e verso la fine degli anni ’50 molti si trasferirono lì dal Northern Territory. Mio padre ne aveva conosciuti alcuni durante i suoi anni a Harts Range, e quando venivano a trovarlo gli trasmisero di nuovo la passione”.
Nel 1961 il padre di Bob si trasferì a Coober Pedy per cercare l’opale, mentre la famiglia restò a Campbelltown. “Tornava a trovarci ogni due o tre mesi”, racconta Bob.
Bob aveva 20 anni quando nel 1967, conclusi gli studi professionali di commercio, raggiunse il padre a Coober Pedy. Appena arrivato, per sfuggire al caldo rovente si rifugiò in uno dei cunicoli sotterranei scavati dai primi minatori. Non era altro che un loculo a forma di banana, dove Bob dormiva con due fratelli e un amico. Ben presto ognuno volle una propria camera da letto, e così nel corso di due anni, armandosi di martelli pneumatici di sera, dopo il lavoro nelle miniere di opale, i ragazzi si scavarono ognuno la propria stanza, lungo un tunnel di 25 metri. Oggi la casa sotterranea ha tutte le comodità, con una cucina moderna e una camera con bagno privato.
Circa l’80% della popolazione vive sottoterra: “Nella mia strada ci sono solo tre case tradizionali, le altre sono tutte dugouts”, conferma Bob. Le case sotterranee hanno tutti i comfort di una normale abitazione: internet, acqua ed elettricità. L’unica differenza è la mancanza di finestre e di luce dall’esterno: una privazione che ne consente però il mantenimento di una temperatura costante tra i 19 e 25 gradi, in qualsiasi stagione dell’anno. “Il bello è che puoi dormire sia di giorno sia di notte, non fa differenza – rivela Del Tedesco –. C’è buio pesto e silenzio di tomba, condizioni ideali per ricaricarsi e tornare ad affrontare il caldo dell’ambiente esterno”.
Quando Del Tedesco arrivò a Coober Pedy la cittadina non aveva molto da offrire in quanto a servizi essenziali. Non c’era elettricità e gli abitanti usavano i loro generatori. “Non avevamo neanche l’acqua – aggiunge Bob –. Un primo impianto idrico installato dal CSIRO fu spazzato via dal vento. Abbiamo avuto l’acqua razionata fino ai primi anni ’70”.
Nonostante gli indubbi miglioramenti, la città risente ancora di un forte isolamento. “Port Augusta è la città più vicina, e dista 540 chilometri”, sottolinea Bob. Da qui ad Adelaide sono nove ore di macchina e quasi altrettante per raggiungere Alice Springs”. Del resto Bob e la compagna Ronda non vorrebbero vivere da nessun’altra parte. “Molti mi chiedono come faccio a sopportare il caldo e la polvere di Coober Pedy, e io ribatto: ‘E lo smog nelle città allora?’ Qui almeno basta una spolverata e si torna puliti”.