BRISBANE – Nel celebre film inglese Billy Elliot, ispirato alla vera storia del ballerino Philip Mosley, il giovane Billy, che vive con il padre minatore nel nord dell’Inghilterra durante gli anni di Margaret Thatcher, invece di praticare la boxe come vorrebbe il padre, decide di fare della danza classica la sua vita. C’è una particolare scena, tanto semplice quanto carica di significato, nella quale l’insegnante di danza chiede a Billy quale sia la ragione che lo ha spinto ad avvicinarsi a quella disciplina. L’ingenua risposta di Billy è quasi assordante: “Non lo so. È successo”.

Ivan Gil-Ortega, un bambino iperattivo nato e cresciuto nella Spagna degli anni ‘80, si avvicina alla danza alla tenera età di quattro anni, un po’ per caso e un po’ per gioco. “Il mio asilo offriva l’opzione del balletto. Mia mamma ha pensato che fosse una bellissima idea per tenermi impegnato e farmi scaricare la tanta energia che avevo”, ricorda Ortega. 

Quando tutti i suoi coetanei aspiravano a diventare il prossimo Luis (Luisito) Suárez mentre calciavano il pallone, Ivan preferiva indossare la calzamaglia e praticare le spaccate e grand jeté. L’artista ricorda che nella sua classe di danza il numero di bambine superava di gran lunga quello dei bambini, di fatto solo tre. “Non nego che abbiamo subìto molto bullismo per questa scelta, ma poiché ero già un ragazzino parecchio alto, non avevo problemi a difendermi. Sono volate un po’ di sedie!”.

Ortega ammette però, un po’ come Billy Elliot, che nonostante adorasse ballare, non aveva ancora ben capito la vera motivazione che lo attirava a questa tanto nobile, quanto antica, disciplina. “Quando sei piccolo non te ne accorgi, ma da quando ho cominciato ad assistere agli spettacoli teatrali, mi è scattato qualcosa dentro. A quattordici anni ho deciso di farne la mia vita. Ballerino una volta, ballerino per tutta la vita”.

Arriva a Stoccarda, appena diciassettenne, e viene preso sotto l’ala di Marcia Haydée, ex prima ballerina dello Stuttgart Ballet sotto la direzione di John Cranko, dal quale ha poi preso il posto: “Marcia è stata come una madre, oltre che la mia prima direttrice artistica e mentore. Altri miei idoli, in quegli anni di formazione, sono stati i grandissimi Baryšnikov e Nureyev”.

Al tempo Ortega parlava solo spagnolo e catalano, e trovava la lingua tedesca alquanto ostica. Essendoci molti italiani nella sua compagnia di ballo a Stoccarda, inizia così a praticare la lingua insieme a loro. Incontra poi una ragazza italiana nel suo periodo trascorso a Berlino, con cui ha una relazione, cementando ancora di più la sua grande affinità con la lingua del Belpaese che, a distanza di molti anni, ancora mantiene.

Arriva poi il periodo delle tournée in Italia, un periodo “d’oro”, come lo definisce Ivan, quello della metà degli anni ’90, dove ballare nei teatri italiani e ricevere tutto il calore e l’affetto del pubblico italiano, che da sempre ama la danza, è un qualcosa che Ortega ancora si porta dentro. “Ho avuto modo di esibirmi nei maggiori teatri italiani, come l’Arena di Verona, il Teatro Massimo di Palermo. Ma il momento più emozionante e bello per me rimarrà sempre quando mi sono esibito al San Carlo di Napoli, uno dei più antichi teatri d’Europa (e di cui l’immensa Carla Fracci è stata direttrice artistica, ndr), nello spettacolo creato da John Cranko per lo Stuttgart Ballet, Eugene Onegin, tratto dal libro di Alexander Puškin ”.

In quegli anni, Ortega ha avuto modo di collaborare con grandi ballerini del panorama italiano, come Eleonora Abbagnato, con cui ha instaurato una grande, e duratura, amicizia. Nel 2009 riceve il prestigioso Premio Positano Léonide Massine, istituito nel 1969 e considerato come il più antico premio di danza al mondo. Con questo, a Ortega viene riconosciuta la sua eccellenza artistica.

Il grande talento e l’amore per la danza lo portano a ballare nei più importanti palchi di tutto il mondo, come quello del Bol’šoj : “Quello è stato uno dei momenti più importanti della mia carriera. È stato quasi come toccare la Sacra Sindone. In quel teatro c’è una energia diversa, i russi hanno un enorme rispetto per la danza classica. Quando dici che hai lavorato al Bol’šoj , quasi ti si aprono le porte del Paradiso”.

Ivan si è anche esibito di fronte alla regina d’Olanda quando era parte della Het Nationale Ballet.

Nel 2008, all’età di 39 anni, decide di ritirarsi definitivamente dal palcoscenico all’apice della sua carriera: “Non volevo cadere – confessa –. Uno come Roberto [Bolle] continua con il grande fisico che si ritrova, ma la danza classica, oltre a essere una delle discipline più difficili e impegnative, ha un forte impatto sul tuo fisico. A una certa età il tuo corpo ti dice: ‘Caro mio, cosa mi stai facendo’. Ma non la cambierei mai con niente al mondo”.

Nel 2016 Ortega arriva per la prima volta in Australia, dove collabora con il Queensland Ballet come assistente della direzione artistica dello spettacolo Strictly Gershwin, per cui lavorerà una seconda volta nel 2023. 

L’anno scorso a dicembre il ritorno a Brisbane, questa volta come direttore artistico de La Dama delle Camelie, interpretato dallo Shanghai Ballet. Per l’occasione, Ortega ha di nuovo calcato il palcoscenico, interpretando la figura del padre di Armand Duval.

“Starò a Brisbane per i prossimi quattro anni. Il 21 marzo si apre la stagione con la versione adattata da Kenneth MacMillan di Romeo e Giulietta, di cui sono il direttore artistico”. 

Ivan si ritiene molto fortunato dello splendido percorso artistico, “fortemente supportato da mia madre e dove sento che non ho mai lavorato un giorno”, oltre a credere molto nelle generazioni future; uno dei motivi del suo ritiro dal palcoscenico è stato anche quello di lasciare spazio ai giovani. Un altro suo desiderio è quello di portare ballerini italiani nel Queensland Ballet: “E lo farò, ne sono certo”, afferma ridendo di gusto, con quella forte determinazione e goliardia che lo contraddistinguono in un ambiente che, molto spesso, è considerato un po’ snob.

Sarà anche forse per questo che la danza classica sta solo recentemente sbocciando in Australia: “Il pubblico australiano non ha la stessa lunga storia d’amore con la danza come quello italiano. Culturalmente in Australia l’interesse per la danza classica è arrivato più tardi. Ma il pubblico di ora è curioso, vuole vedere cose nuove. Quindi ci dobbiamo concentrare sulle nuove generazioni, soprattutto in questo momento di grande disconnessione umana. Perché quando vai a teatro, c’è un altro tipo di connessione che puoi avere rispetto a quando guardi la televisione”. 

Una connessione umana quasi trascendentale che, solo grazie al movimento aggraziato del corpo su note musicali senza tempo, riesce ancora, nonostante tutto, a far vibrare le corde di ogni cuore.