Il tasso medio di velocità del parlato oscilla tra 80 e 150 parole al minuto. Poi come sempre ci sono le eccezioni. Umberto Clerici, primo violoncello della Sydney Symphony Orchestra, ha l’incredibile capacità di sostenere un eloquio chiarissimo pur disquisendo alla velocità di un esperto battitore d’aste.

Forse è per tenere insieme i tantissimi fili disparati di un’idea di approccio alla musica che, come un delicato lavoro all’uncinetto, unisce una sottile e intricata trama di motivi - letterari, culturali e di storia della musica.

Per il concerto The Italian Sound, in collaborazione con i musicisti dell’ANAM (Australian National Academy of Music) alla South Melbourne Hall, venerdì 4 ottobre alle 11am, il violoncellista, originario di Torino, ha proposto una domanda ingannevolmente semplice: “Come si definisce un Italian sound? Qual è il suo tratto distintivo?”.

La mente va subito al bel canto e all’opera lirica, ma il percorso ideato da Clerici è più indiretto e procede per deviazioni dalla norma, proponendo di rintracciare cellule di italianità in correnti musicali non autoctone, per dimostrare come il nostro peculiare approccio alla sonorità riesce a spiccare e a rompere gli schemi anche nel caso di composizioni che si rifanno a generi nati dalla sensibilità culturale di altre nazioni. 

Ma procediamo per esempi concreti. Il primo brano in scaletta è Hell 1 di Giovanni Sollima, un violoncellista e compositore molto influenzato dal minimalismo. “È una corrente completamente americana – spiega Clerici – basata su un’estrema semplificazione degli stilemi e sulla loro ripetizione. Il minimalismo italiano però è più melodico, ha più pathos”. 

“Hell 1 è un pezzo italiano al cubo – continua il musicista - perché si riferisce all’entrata di Dante all’Inferno, e la Divina Commedia è la quintessenza della nostra letteratura”. L’orchestra suona un motivo che si ripete innumerevoli volte e l’unica variazione è rappresentata dal volume: si parte dal silenzio fino raggiungere un ‘fortissimo’ per poi tornare al silenzio. Su questa base, che rappresenta l’Antiferno, popolato dagli ignavi, lo strumento violoncello simboleggia Dante.

D’altronde il violoncello è lo strumento più vicino alla voce umana, come spiega Clerici. “Gli archi funzionano come la nostra voce, con delle corde che vibrano. E tra gli strumenti ad arco il violoncello è quello che prende un po’ tutto il registro umano, dal basso fino al soprano, quindi di solito ha sempre una connotazione della voce umana, perché ha questo suono scuro e pastoso”.

Segue un concerto per violoncello di Vivaldi. “Questo brano al secondo movimento è molto simile al pezzo di Sollima, a distanza di 250 anni - rivela Clerici -. C’è una sensibilità comune. Secondo me, Vivaldi è quasi un minimalista ante-litteram, perché usa gli stessi espedienti, cioè cellule semplici che si ripetono, ma trasportati in tonalità. La sua musica è come se fosse un Lego. Tant’è che Stravinskij disse che Vivaldi aveva scritto cento volte lo stesso concerto”.

Il terzo e ultimo brano della prima parte del programma è di Ezio Bosso, un compositore che si identifica ancor più di Sollima con il minimalismo perché discepolo di uno dei capostipiti di tale corrente, ovvero Philip Glass. “I pezzi di Bosso sono chiaramente minimalisti, ma sono intrisi di italianità da un punto di vista melodico e dalla volontà di andare oltre lo schema. Gli italiani sono bravi a cercare di distruggere le regole, questo anche nelle cose normali”, commenta Clerici.

Il brano di Bosso si intitola Sea Prayer e si ispira a una scultura dell’artista belga Jean-Michel Folon che si erge su una banchina lungo la costa del Belgio, e a seconda delle mareggiate è completamente sommersa, come se a scolpirla fosse stato il mare in millenni di lavoro. Qui l’orchestra diventa l’oceano e il violoncello si innalza a rappresentare l’umanità.

Nella seconda parte del programma Clerici non suonerà più da solista, e con il resto dell’orchestra eseguirà gli unici due brani del romanticismo operistico italiano scritti per un gruppo strumentale e non per voci. Si tratta del componimento I crisantemi, di Puccini, e del Quartetto per archi in mi minore di Verdi. 

In Italia c’era molta esterofilia nei confronti di questo filone della musica classica, sostiene Clerici. “Verdi voleva dimostrare che anche un grande compositore d’opera può scrivere un concerto da camera alla pari di un tedesco. Ovviamente lo ha fatto in una chiave completamente diversa”, spiega. Il compositore scelse infatti di concludere la composizione con una fuga anziché con un rondò. Clerici ci ricorda inoltre che “in Italia a metà dell’Ottocento la musica da camera non esisteva, perché la musica era un costume di massa e non elitaria”.

“Come la tragedia greca, era un elemento che univa tutti - chiarisce -. L’opera ha anche aiutato la diffusione di una lingua italiana, prima dell’unificazione. La musica da camera è invece la quintessenza della stilizzazione musicale”.

C’è anche una componente idiomatica, aggiunge Clerici: “La nostra lingua ha una chiarezza molto marcata perché abbiamo vocali quasi tutte aperte e univoche, e consonanti nette. Quindi è un suono molto più aperto”. Questo si ripercuote anche sugli strumenti. “La nostra idea di suono parte dalla nostra lingua madre, quando siamo nella culla e sentiamo i nostri genitori parlare - continua il violoncellista -. Tutto il nostro pensiero sonoro si basa sul nostro idioma”.

Umberto non avrà cominciato a suonare il suo strumento dalla culla, ma non si ricorda di un momento in cui non ci fosse della musica. A cinque anni gli è stata data la possibilità di scegliere tra il violino e il violoncello (quest’ultimo strumento in versione infantile è ridotto fino a un ottavo della sua grandezza).

“Mi hanno fatto ascoltare due bambini che avevano completato un anno di studi. Il violino in versione microscopica era insopportabile, sembrava un gatto trascinato sull’asfalto. Poi mi piaceva l’idea di uno strumento che abbracci con tutto il corpo, mentre la maggior parte degli strumenti hanno un punto di contatto delimitato”.

Giunto in Australia cinque anni fa quando gli è stato affidato il ruolo di primo violoncello all’orchestra sinfonica di Sydney, un posto che era rimasto vacante da 15 anni, Umberto Clerici affianca l’attività di strumentista a un apprendistato come direttore d’orchestra.

“Tanti violoncellisti sono passati dall’orchestra al dirigere. È un punto di vista diverso. Ho passato 20 anni a essere di fronte al pubblico; adesso invece da direttore non guardo il pubblico ma guardo il musicista. Quindi, sei come uno specchio e questo ti rende molto più importante dal punto di vista dell’interazione”.