La passione per tutto ciò che vola è la bussola che orienta da sempre la vita di Tom Lockley. Ex dirigente scolastico, oggi storico dell’aviazione e ricercatore meticoloso, Lockley appartiene a quella singolare categoria di studiosi mossi da una curiosità insaziabile e da un rispetto quasi reverenziale per la memoria. “Scrivo regolarmente articoli per il bollettino mensile dell’Aviation Historical Society”, racconta il ricercatore. “Un giorno mi sono imbattuto in un libro su Francesco De Pinedo. Pensavo fosse solo un ricco italiano con la passione per il volo, ma presto ho capito che dietro la sua figura si celava un’impresa straordinaria”.
È l’inizio di una ricerca che lo assorbe per mesi interi. La scintilla scatta nei primi anni Duemila, quando, da poco in pensione, Lockley si ritrova libero di dedicarsi alla sua vera vocazione: scavare tra archivi, diari e giornali d’epoca alla ricerca di storie dimenticate. Francesco De Pinedo, “nome elegante e vagamente aristocratico di un aviatore italiano”, compare quasi per caso tra le pagine di un volume. Ma dietro quel nome si dischiude un mondo. “Fu il terzo aereo in assoluto a raggiungere l’Australia. I primi due, britannici, a stento riuscirono ad arrivarci. De Pinedo non solo ce la fece, ma da lì proseguì fino al Giappone, attraversando zone allora quasi inesplorate”.
Il professore si immerge completamente nella storia. Il suo studio si popola di mappe ingiallite, ritagli di giornali digitalizzati sul sito della National Library of Australia, vecchie fotografie in bianco e nero, linee di volo tracciate con matite colorate.
Si serve di ogni fonte possibile: archivi pubblici, racconti dei discendenti, lettere, e soprattutto il libro dello stesso De Pinedo, Un volo di 55.000 chilometri. “Non esiste una traduzione inglese ufficiale – spiega –, ma grazie a un gruppo di amici italiani e a qualche traduzione automatica ho potuto seguirne la narrazione. È una prosa raffinata, densa di riflessioni, scritta da un uomo di straordinaria cultura”.
Lentamente, Lockley ricostruisce il mosaico di quell’impresa: l’idrovolante SIAI S.16ter, con le sue ali di legno e tela, lo scafo lucido, l’elica a quattro pale che taglia l’aria salmastra. Le tappe di un viaggio che sembra uscito da un romanzo d’avventura: Grecia, Medio Oriente, India, Malesia, poi l’Australia, dove la popolazione lo ha accolto come un eroe. E ancora alla volta del Giappone, prima di far ritorno a Roma, il 7 novembre 1925. “Più di 20.000 persone a St Kilda, a salutare il suo arrivo – racconta Lockley –, e articoli su tutti i giornali, oltre 3.600 solo in Australia. Eppure, oggi, al di fuori della comunità italiana, di lui quasi nessuno sa più nulla”.
Per l’ex dirigente, l’impresa coraggiosa di De Pinedo non è solo un contributo alla storiografia aeronautica, ma anche un tassello della storia sociale australiana. “Mi interessava già l’immigrazione italiana – asserisce –. Avevo scritto di famiglie internate durante la guerra, e di come gli italiani abbiano contribuito alla costruzione del Paese. De Pinedo, con la sua eleganza e il suo portamento, offrì un’immagine nuova dell’Italia: un Paese di scienza, di coraggio, di competenza tecnica”.
Il lavoro certosino di Lockley non ha come scopo ultimo il racconto di un’impresa, ma piuttosto quello di illuminare di senso un frammento di storia. Nella sua ricerca, il volo del 1925 è certamente una prodezza meccanica, ma anche una metafora dell’audacia umana.
De Pinedo credeva infatti che il futuro fosse negli idrovolanti, nella possibilità di collegare le città costiere del mondo planando sull’acqua. “Era un visionario”, commenta Lockley. “Pensava che un giorno si sarebbe potuto atterrare persino sul Tamigi. E, in fondo, non aveva torto: i grandi voli commerciali con idrovolanti arrivarono davvero”.
Nove articoli, un anno di lavoro, una rete di contatti e scambi tra studiosi: il suo contributo, oggi, è una fra le fonti più complete sulla permanenza di De Pinedo in Australia. “Forse ciò che mi affascina di più – confessa –, è la misura del coraggio. Non solo il volo in sé, ma la visione, l’idea di attraversare il mondo in un’epoca in cui tutto era incerto. E di farlo con stile, con intelligenza, con cultura”.
Oggi Lockley continua a scrivere e a collaborare con musei e associazioni aeronautiche, spesso dal suo studio pieno di carte e modellini di aerei. “Quando penso a questa impresa audace, penso a un uomo che ha osato superare i confini del possibile, e al piacere, anche per chi non è italiano, di riscoprirlo, un secolo dopo”.