Preceduto dalla fama di film “scandalo’, ad alto tasso di sesso gay, come da estrazione letteraria del romanzo di William S. Burroughs, si è svelato al pubblico della Mostra del cinema di Venezia il nuovo film di Luca Guadagnino, “Queer”, con l’ex James Bond, Daniel Craig, nei panni di uno scrittore expat americano nella Città del Messico sordida degli anni ‘50, dipendente da sesso e oppiacei, che perde la testa per il giovane Eugene Allerton (Drew Starkey), un incontro che diventa attrazione fatale. “Volevamo che sembrasse reale, toccante, naturale anche se sappiamo che niente di ciò che accade sul set è intimo; decine di persone ti guardano. E così per rompere la tensione abbiamo ballato; poi il resto è arrivato. Drew è un attore meraviglioso, fantastico, e noi ci siamo fatti una risata. Abbiamo cercato di renderle divertenti”, dice Craig sulle scene di sesso con Starkey. Archiviato il tema sesso si parla di tutto il resto, della ricostruzione dell’epoca, con costumi meravigliosi, e della storia raccontata da Burroughs che da anni e anni Guadagnino voleva far diventare film. “Quando lessi il libro di Burroughs avevo 17 anni, abitavo a Palermo e volevo cambiare il mondo con il cinema. Quel romanzo ha segnato la mia adolescenza, ne ho cercato i diritti per anni, poi ho avuto la fortuna di lavorare con Justin Kuritzkes in ‘Challengers’ e parlare di nuovo del romanzo con lui. Abbiamo deciso di tentare: i diritti di trasposizione erano disponibili ed è stata una gioia: il sogno di una vita si avverava. Questo ha una morale che vale per tutti: non bisogna mai smettere di insistere su ciò che si vuole”, dice il regista di “Chiamami col tuo nome”. Guadagnino è un conoscitore di Burroughs, con Jack Kerouac tra i padri letterari della Beat Generation. “‘Queer’, più di ‘Pasto nudo’ ad esempio, è il mio preferito, ha questa forma stupenda, picaresca, con un protagonista che gira la notte, va nei bar, parla di continuo, intrattiene, è comico, buffo, tragico fragile, nudo e poi bam! incontra qualcuno che lo incontra a sua volta, ed è come se questo incontro fosse inevitabile, inesorabile”. Al centro di questa avventura, che da Città del Messico, dalla suburra della comunità degli americani espatriati, omosessuali, bevitori, gaudenti si sposta in Sud America alla ricerca della yage, la radice che dà la telepatia, c’è però la grande solitudine allucinata e tossica del protagonista Craig. “Il filosofo György Lukács diceva che ‘essere uomini, essere umani, significa essere soli’, e la mia amica Tilda Swinton mi ha sempre detto: ‘We love and die alone’, amiamo e moriamo in solitudine”. Teme un’etichetta di scandalo per “Queer” (alla prima stampa anche qualche solitario buu)? “Ha una complessità di significati diversi rispetto a oggi. All’epoca di Burroughs, ‘Queer’ voleva dire checca, frocio, un termine denigratorio oppure persona strana, diversa. Moralmente? Non lo so; non mi sono mai posto i problemi della morale e non m’interessa. ‘Queer’ per me è una profonda radicale storia d’amore che ci riporta alla condizione terminale di essere umani, cioè che siamo soli”. Non è un film sugli anni ‘50 (peraltro ricostruiti con lo scenografo Stefano Baisi e il costumista Jonathan Anderson) “ma sull’universo di Burroughs, ricreato – spero – nel modo più profondo e dettagliato possibile. E se l’immagine estetica del film piace, è merito suo”. Guadagnino ha cercato Craig come protagonista (“divino, attore sublime, magnifico anche a teatro”) convinto del suo rifiuto, “invece una settimana dopo faceva il film”. E così il protagonista della saga di 007 è diventato Lee, l’alter ego dello scrittore. “È la prova della mia vita”, dice il direttore della Mostra, Alberto Barbera. “Allora la mia carriera è andata! Ma se finisce qui è meglio che altrove”, ha scherzato Craig. “[Da anni] volevo lavorare con Guadagnino e quando si è presentata l’opportunità l’ho colta al volo”. Craig dice di non avere paura di spiazzare il pubblico con un personaggio omosessuale dopo un macho come Bond: “Non ho alcun controllo sulla mia immagine. Scelgo di interpretare ruoli che rappresentino una sfida, per me stesso e per il pubblico, cercando di essere il più interessante e creativo”.

“Non un film di guerra ma sulla guerra”, dice invece Gianni Amelio, primo film italiano in concorso alla Mostra veneziana con “Campo di battaglia”, accolto da 7’ di applausi alla proiezione ufficiale al Lido. Siamo nell’ultimo anno della Prima guerra, nell’ospedale militare dietro il fronte, guidato dall’ufficiale medico Stefano (Gabriel Montesi), dove si curano alla meglio i sopravvissuti e appena in piedi con le loro gambe si rispediscono al fronte, con particolare durezza quelli che si procurano da soli ferite per tornare a casa. Ma Giulio (Alessandro Borghi), altro ufficiale, compagno d’infanzia e di studi di Stefano, biologo, la pensa diversamente e comincia di nascosto una sua personale illegittima pratica per salvare quei poveri Cristi. “C’è un’utopia a monte. Questa storia - racconta con passione Amelio - non è un apologo realistico contro la guerra, ma utopistico. Tutto va in una sola direzione: le guerre fanno male, le vittime sono soprattutto innocenti, allora utopisticamente per fermarle meglio che non ci siano più braccia per imbracciare fucili. È un paradosso, certo, ma su cui si fonda la morale del film”. Liberamente ispirato a La Sfida di Carlo Patriarca, girato tra Veneto e Trentino, sceneggiato da Amelio con Alberto Taraglio, intreccia la storia della comune amica infermiera Anna (Francesca Rosellini) che arriva nell’ospedale militare e capirà che c’è un sabotatore. In questo film di guerra senza la guerra Amelio sceglie di non mostrare i morti: “Sono usurate queste immagini, ne vediamo troppe”.