Nel panorama politico di questo 2025, la campagna elettorale in corso rappresenta molto più di una semplice corsa verso il consenso delle urne.

Non è solo uno spazio mediatico in cui ribadire slogan, idee, proposte o mettere in scena dibattiti televisivi: è un banco di prova reale, in cui si gioca la credibilità, la coerenza e la visione delle forze in campo.

A metà del percorso di questa campagna, il quadro che emerge sembra essere quello di una competizione tutto sommato ancora asimmetrica, dove i laburisti sembrano più in controllo, capaci di capitalizzare i vantaggi del governo uscente con disciplina e una certa misura, mentre la Coalizione si è mossa in modo incerto, affannato, spesso incoerente e ‘balbettante’.

Almeno fino a questo punto, con il secondo dibattito televisivo in corso mentre andiamo in stampa, la campagna ha avuto un impatto diretto sulle intenzioni di voto. In un’epoca in cui è emerso tra gli elettori un legame meno solido con i blocchi storici, la capacità di ottenere il consenso fino all’ultimo giorno della campagna elettorale è diventata essenziale.

Ed è qui che si potrebbe essere già aperta una frattura: mentre Albanese ha mantenuto una linea costante, pragmaticamente orientata al miglioramento dei servizi esistenti, dalla sanità alla formazione professionale, dall’accesso ai farmaci all’educazione per l’infanzia, fino all’edilizia residenziale, Dutton sta ancora faticando a costruire una narrazione coerente e a trasmettere affidabilità.

La strategia del leader laburista è tutt’altro che spettacolare. Nessuna promessa rivoluzionaria, nessuna postura da uomo della provvidenza. Albanese ha preferito tenere un basso profilo, quasi ligio al ruolo del bravo e serio amministratore, puntando sulla credibilità personale e sulla solidità delle sue proposte, tra l’altro abbondantemente anticipate ancor prima dell’inizio della campagna. Sono stati annunci pianificati con attenzione, ancorati a interventi locali, accompagnati e sostenuti da fondi specifici.

In sostanza, ha provato a raccontare un futuro, senza particolare visione, va detto, ma che provi a restare ancora al presente con l’ambizione, eventualmente, di migliorarlo. Una narrazione che può sembrare non particolarmente brillante, e forse in alcuni punti lo è, poco brillante, ma che forse si connette con un elettorato stanco di enfatiche promesse e bisognoso di stabilità e certezze.

Di contro, la campagna della Coalizione è sembrata sin dalle prime battute improvvisata, segnata da passi falsi e scelte comunicative controproducenti. Errori nei toni e, in alcuni casi, anche nei contenuti, che hanno dato l’impressione di un leader concentrato sui dettagli, più che su un’idea di Paese. Basti pensare, ed è solo un esempio, alla confusione sulla proposta di eliminare il lavoro da remoto per i dipendenti pubblici. L’iniziativa, annunciata con enfasi, è stata subito percepita come punitiva e distante dalla realtà del mondo del lavoro post-pandemia. Nonostante gli allarmi lanciati da importanti esponenti liberali, soprattutto donne, il tema è stato mantenuto in agenda per settimane, salvo poi essere abbandonato senza un vero chiarimento. Il danno, però, era fatto.

Questi episodi non sono incidenti isolati, ma sintomi di un problema più profondo: l’assenza di una linea strategica condivisa all’interno della Coalizione. Il coordinamento tra l’ufficio del leader e il quartier generale della campagna è apparso carente, le scelte politiche spesso tattiche e non strategiche, figlie della necessità di “rispondere” ai laburisti piuttosto che di anticiparne le mosse. Si è avuta la netta impressione di un partito in modalità reattiva, più attento a inseguire il ciclo delle notizie che a proporre una visione strutturata di governo. In termini elettorali, questo si traduce in un problema di fondo: la difficoltà nel costruire fiducia.

Fiducia, appunto. È qui che si gioca la partita decisiva. La leadership di Dutton è apparsa spesso inadeguata a trasmettere affidabilità. La sua vicinanza (più o meno dichiarata) a Donald Trump ha sollevato non poche perplessità, soprattutto nel momento in cui l’ex presidente statunitense ha rilanciato la sua guerra commerciale con l’annuncio di nuove tariffe.

La risposta di Albanese è stata istituzionalmente sobria. Dutton, al contrario, ha provato a cavalcare la notizia, spingendosi fino a evocare un ruolo di AUKUS e ANZUS nella gestione del contenzioso. L’ex primo ministro John Howard è intervenuto per ridimensionare queste affermazioni, ricordando implicitamente che la politica estera richiede cautela e preparazione. Il risultato è stato un ulteriore indebolimento della credibilità dell’opposizione.

A peggiorare il quadro è arrivata la sortita di Jacinta Nampijinpa Price, che durante un comizio ha rilanciato lo slogan trumpiano “Make Australia Great Again”. Una frase che, portata in questo contesto, suona a dir poco surreale. Il suo leader Dutton, in un goffo tentativo di prendere le distanze ha alimentato la polemica. L’effetto è stato quello di prolungare l’attenzione mediatica su una dichiarazione che, se non potenziata in questo, sarebbe forse finita nel dimenticatoio di qualche inutile post sui social. Insomma, sembra che, a parte nel lancio della campagna elettorale di domenica scorsa dove tutto sommato il leader dell’opposizione non ha sfigurato, ancora oggi Peter Dutton stia facendo fatica a presentare una piattaforma politica con una visione d’insieme e con un’ottica di lungo periodo.

Il rischio è che l’elettorato colga, dall’una o dall’altra parte, che si stia agendo di reazione, di pancia, di risposte che ‘mettono le toppe’ per recuperare, in extremis, livelli di consenso che, almeno per la Coalizione, i sondaggi continuano a veder calare. Il voto del 3 maggio si avvicina, gli appuntamenti televisivi che, dopo quello di ieri sera, saranno ancora due, potrebbero spostare qualche voto ma per far sì che questo accada, bisognerebbe che si dica all’elettorato che si hanno idee, progetti, proposte realizzabili e sostenibili, senza lasciare intendere che si possa, improvvisamente, fare retromarcia.

La direzione è ciò che conta, più che il movimento che si compie per raggiungere l’obiettivo, quello che si dovrebbe trasmettere, con molta chiarezza, è sapere dove si vuole andare, dove si vuole arrivare. Mai sottovalutare, in campagna elettorale e in un percorso politico, le sensibilità dei cittadini, ben più profonde e con aspettative di lungo periodo, più lungo di quanto si possa credere. Una campagna elettorale si vince con le proposte, con gli annunci, con gli ‘una tantum’ elettorali, certo, ma si conquista consenso rispetto all’avversario dando un senso di coerenza, di capacità di essere guida con una visione riconoscibile.

Sul lato del primo ministro Albanese, nel frattempo, almeno a leggere i dati degli ultimi sondaggi, c’è stato un consolidamento del suo vantaggio anche grazie a una comunicazione sobria, orientata al fare, che valorizza ciò che è già stato fatto piuttosto che promettere miracoli. Anche il leader laburista non è stato certo esente da errori ma, almeno fino ad ora, ha saputo mantenere un profilo istituzionalmente corretto, attento a evitare di cadere nella battaglia degli attacchi personali, che non sono mancati ma che, tutto sommato, non sembrano essere la cifra stilistica della campagna laburista. Una campagna, come quella degli avversari della Coalizione, che non sta scaldando il cuore ma forse, in un contesto così ‘ballerino’, così incerto a livello interno e internazionale, serve sobrietà per dichiarare agli elettori di essere portatori di equilibrio e stabilità.

La sfida vera, per Albanese e la sua squadra, sarà mantenere questo approccio fino al giorno del voto. Per Dutton, invece, è forse giunto il tempo di presentarsi agli occhi di tutti gli australiani come leader affidabile, come guida di un gruppo compatto capace di diventare la classe dirigente di questo Paese per i prossimi tre anni, anche perché, in caso di sconfitta, il post voto per la Coalizione potrebbe essere il terreno di una dura resa dei conti.

Insomma, il voto del 3 maggio, e le settimane che ci separano da quel giorno, sembrano assumere un valore ben più ampio del pur importante risultato delle urne, un valore che afferisce non solo alla questione della fiducia eventualmente concessa ai laburisti per poter continuare a governare per un secondo mandato, ma, a quel punto, anche ai limiti strutturali del blocco conservatore australiano che, ad oggi, sembra ancora alla ricerca di una identità ben precisa.