Elezioni anticipate? Una ‘minaccia’ fatta non si sa bene perché. Coalizione e verdi accetterebbero la sfida prima di maggio del prossimo anno con estremo piacere, convinti come sono, a ragione, che il governo navighi in acque tutt’altro che tranquille. Il primo ministro Anthony Albanese ha sfogato così la sua frustrazione per i no che stanno accompagnando alcuni disegni di legge (servizio a pagina 11) e che, costituzionalmente, potrebbero servire a sciogliere anticipatamente le Camere, forzando il rinnovo completo anche del Senato. Non succederà perché non conviene e ridursi il tempo a disposizione per cercare di recuperare importante terreno non sarebbe una mossa strategicamente particolarmente felice. Meglio accettare le difficoltà del momento e continuare la navigazione alla ricerca di un porto elettorale più sicuro.
Tanto più che da qui a maggio c’è abbastanza tempo per superare qualche intoppo e riprendere quota, e magari di ricevere un aiuto extra dalla Banca centrale sul fronte dei tassi d’interesse, preparandosi al meglio per rispondere a quella che è, ma che probabilmente continuerà ad essere fino al giorno delle urne, la domanda ‘clou’ sulla quale l’opposizione ha già cominciato a fare campagna: “State meglio o peggio di due (ora) tre (quando si voterà) anni fa?”. Non il massimo della creatività, infatti è un mezzo slogan dell’opposizione di turno, ma funziona sempre, e per questo sia il leader della Coalizione, Peter Dutton, che il portavoce ombra del Tesoro, Angus Taylor, stanno facendo le prove generali in Aula. Quest’ultimo ha, infatti, puntato direttamente il dito su Jim Chalmers per le difficoltà del momento: “Il ministro del Tesoro si assumerà la responsabilità delle cattive decisioni del governo negli ultimi due anni, che hanno portato il paese nella direzione sbagliata e danneggiato le famiglie australiane?”
In diretto interessato, ovviamente, era preparato e ha replicato con un elenco di risposte positive, a suo dire, già fornite agli elettori, facendo rilevare due surplus di gestione e un’economia che, pur rallentata dai venti internazionali contrari, continua a rimanere (seppur di poco) al di sopra della linea di galleggiamento: “Mi assumo la responsabilità – ha detto Chalmers, ripetendolo più volte - del fatto che, nonostante l’opposizione, ogni contribuente australiano sta beneficiando di una riduzione delle tasse. Mi assumo la responsabilità del fatto che ogni famiglia riceverà un aiuto sulle bollette energetiche, [mi assumo la responsabilità…] che i costi a carico delle famiglie per i servizi della prima infanzia sono diminuiti, che i medicinali costano meno e che i salari stanno di nuovo aumentando. Mi assumo anche la responsabilità per il contributo dato dal governo alla lotta contro l’inflazione”.
E un pizzico di ragione e uno spiraglio di ottimismo sono stati confermati da un recente sondaggio Redbridge che ha rivelato che, nonostante la stragrande maggioranza degli australiani non è riuscita a indicare qualcosa di particolarmente significativo fatto dal governo per cambiare in meglio la loro vita, i tagli fiscali sono stati estremamente popolari e considerati una minima mossa nella giusta direzione.
Nessuna notizia positiva uscita invece da un altro sondaggio, condotto dalla stessa agenzia di rilevamenti nei sobborghi occidentali di Melbourne e Sydney: “Per la prima volta in molti anni - ha fatto osservare il direttore della Redbridge, Kos Samaras -, i risultati sono stati praticamente gli stessi in entrambe le due maggiori città” e non sono certamente favorevoli in un’ottica laburista. Tutti concordi, infatti, a far notare che la Coalizione ha dato il via alla spirale negativa del costo della vita, ma il governo non ha fatto niente per migliorare la situazione. Frustrazione diffusa e spazi propositivi per Dutton che l’esecutivo cercherà di ridurre spostando l’obiettivo su un altro tema sul quale i laburisti ritengono di avere un collaudato vantaggio: quello delle riforme del lavoro, “che la Coalizione intende smantellare” è il messaggio che l’ex ministro responsabile del settore, Tony Burke, ha già usato facendo campagna nel suo collegio di Watson, dove ha già preannunciato la sua candidatura l’indipendente Dr Ziad Basyouny (ma ci saranno altri indipendenti a scendere in campo contro il ministro, sulla scia della protesta pro-palestinesi legata alla tragica situazione di Gaza). Il medico, di origine egiziana, ha dichiarato che “purtroppo Burke rappresenta il Partito laburista e non gli elettori” di un collegio che comprende diversi sobborghi multietnici come Lakemba, Bankstown, Punchbowl e Campsie, dove c’è parecchia insoddisfazione per i messaggi non recepiti da Canberra su Gaza, l’edilizia popolare, il costo della vita in generale. Ma Burke, facendo da battistrada per una campagna che rivedrà le relazioni industriali in primissimo piano, è già andato a rispolverare WorkChoices, ben sapendo che i dubbi e la paura, anche in questo campo, funzionano: se non si ha nulla di positivo da offrire, infatti, tanto vale puntare sul classico “state attenti, con gli altri sarà peggio”.
Ma il tema delle relazioni industriali non è a senso unico e se la strategia laburista potrebbe funzionare in alcuni seggi, potrebbe diventare un handicap in altri, specie negli Stati delle miniere (nel Western Australia ancora più che in Queensland) dove la levata di scudi per le riforme annunciate da Burke si sta facendo sempre più rumorosa e si sta diffondendo anche in altri settori, al punto che alla cena annuale del Business Council of Australia (BCA) l’accoglienza nei confronti di Albanese è stata piuttosto fredda e il messaggio lanciato dal mondo imprenditoriale piuttosto chiaro: “Così non va”.
Le grandi aziende si sentono abbandonate dal governo dopo le premesse di una specie di ‘Accord’ (la storica intesa tra i sindacati e l’amministrazione laburista del 1983) di nuova generazione, dopo essersi schierati a fianco del primo ministro sul referendum costituzionale pro-popolazione indigena, sulla ‘rivoluzione’ delle rinnovabili, sulla transizione energetica verso il traguardo delle emissioni nette zero, perfino sull’idea delle riforme del lavoro che sono però poi andate oltre alle linee guida uscite dal vertice post elettorale di Albanese e Chalmers che, per un attimo, si sono rivisti nei panni di Hawke e Keating.
Ora qualcosa si è definitivamente rotto in un tentativo di intesa mai interamente decollato e la scarsa produttività, abbinata ad una crescita ridotta al lumicino, con piccole aziende e famiglie che fanno veramente fatica, pesano sulle prospettive elettorali di un governo che sembra avere perso direzione e determinazione e parecchia della fiducia che aveva conquistato, poco più di due anni fa alle urne, anche dal mondo dell’industria che ora si sente tradito dalla piega nettamente pro-sindacati di ogni riforma che viene annunciata. Il primo ministro ha cercato inutilmente di assicurare i leader del BCA che il suo governo è sia pro-aziende sia pro-lavoratori, cercando di sottolineare che, nonostante alcune incrinature, ci sono più punti in comune che divergenze nei rapporti con le imprese, ma ha anche assicurato che non ci saranno correzioni di rotta sulle relazioni industriali, che la contrattazione collettiva settoriale rimane in atto, come tutte le nuove regole per la vigilanza sindacale sul mondo del lavoro in generale.
Freddezza, qualche timida precisazione da una parte e dall’altra, nessun particolare affondo, con due assenze di rilevo alla cena del nuovo corso del BCA, dopo il passaggio delle consegne tra Jennifer Westacott e Bran Black: non c’erano, infatti, il leader dell’opposizione, Peter Dutton (che non ha preso parte, senza fornire particolari spiegazioni, anche all’incontro con le aziende minerarie della settimana scorsa) e la segretaria della Confederazione nazionale dei sindacati (ACTU), Sally McManus che, a dimostrazione dell’aria che tira, al contrario dello scorso anno, non è stata nemmeno invitata.
Per Albanese la trasferta americana per il vertice Quad (con Stati Uniti, Giappone e India) capita al momento giusto per tirare il fiato: a Wilmington (Usa) a parlare della cooperazione e della sicurezza nell’Indo-Pacifico, senza rischi e senza particolari aspettative da parte di nessuno.