Dalla Rift Valley in Kenya ai campi profughi della Giordania, Valentina Baù ha costruito un’intera carriera attorno a una convinzione radicale: la comunicazione non è solo un mezzo, ma uno strumento concreto di giustizia, coesione sociale e trasformazione pacifica dei conflitti.

In particolare, è la Communication for Development (C4D) in Peacebuilding (Comunicazione allo Sviluppo per la Ricostruzione della Pace), il suo campo di ricerca e pratica, a dimostrarne ogni giorno la potenza trasformativa.

Baù è Senior Research Fellow alla Western Sydney University, dove co-dirige l’Humanitarian and Development Research Initiative (HADRI).

Nata in Italia e formatasi all’Università di Perugia, Baù inizia il suo percorso accademico nel campo delle scienze della comunicazione. Dopo la laurea, si trasferisce nel Regno Unito dove ottiene due master: in relazioni pubbliche e in Communication for Development.

La svolta arriva presto, grazie a una borsa di studio del ministero degli Esteri italiano (MAE-CRUI) che la porta in Mozambico, ed è qui che scopre il potenziale del “Theatre for Development”, un progetto itinerante di teatro per la prevenzione dell’HIV: è la scintilla che accende un interesse destinato a guidare tutta la sua carriera.
 Dopo esperienze con due ONG londinesi, seguite dall’ONU in Angola, Baù decide di dedicarsi alla ricerca. Ottiene una borsa di dottorato in Australia e si trasferisce nel 2011 a Sydney.

Al centro della sua tesi: l’analisi di due progetti di media partecipativi (uno teatrale, l’altro video) realizzati nella Rift Valley del Kenya dopo il conflitto interetnico del 2007-2008.
Quei progetti puntavano a mettere in comunicazione gruppi contrapposti e a promuovere processi di riappacificazione.
 “L’ascolto della storia dell’altro è il primo passo per la pace” afferma Baù, che ha vissuto in prima persona quanto la comunicazione abbia il potere di ricostruire legami laddove le istituzioni falliscono. “La C4D si rivela essenziale per promuovere coesione sociale e risoluzione pacifica dei conflitti attraverso la comunicazione partecipativa. Coinvolgere le comunità nella produzione mediatica consente alle persone di raccontare le proprie storie e di esprimere i propri sentimenti, creando così uno spazio di dialogo e comprensione reciproca”. Questo approccio non solo dà voce a chi spesso è marginalizzato, ma contribuisce anche a costruire legami sociali e a promuovere la coesione comunitaria.
 Ma cosa sono i media partecipativi? “Non si tratta solo di trasmettere messaggi - spiega - ma di coinvolgere le comunità nella creazione stessa della narrazione”.

Nel tempo, ha esplorato strumenti diversi: dal teatro alla fotografia, fino alla radio comunitaria e al video.
 In tutti i casi, ciò che conta è il processo di co-creazione e lo spazio di dialogo che si apre tra le parti. La sua attività di ricerca l’ha portata in Sierra Leone, Colombia, Filippine, Cisgiordania, Giordania e Kenya.
 La C4D non si applica solo ai contesti di guerra, ma a ogni forma di conflitto o disuguaglianza. Può promuovere sviluppo comunitario e coesione sociale, contrastando narrazioni distorte. È cruciale anche nelle emergenze umanitarie, con uno sguardo al lungo termine. Attualmente, Valentina Baù è alla guida del progetto Development Communication, Media and Peace in Protracted Displacement, finanziato dall’Australia Research Council, che esplora la comunicazione nei campi profughi di Kakuma (Kenya) e Za’atari (Giordania).
 L’obiettivo è comprendere come i giovani rifugiati comunicano tra loro e con le ONG presenti nei campi, mappando la cosiddetta ecologia comunicativa: le relazioni, i canali, le dinamiche che strutturano il loro universo comunicativo quotidiano. “Whatsapp, Facebook, le stazioni radio locali, ma anche megafoni montati su jeep che trasmettono messaggi in diverse lingue: ogni campo ha la sua infrastruttura di comunicazione”, spiega Baù. Le ONG gestiscono i centri per i giovani, programmi educativi, campagne sanitarie, attività sportive e percorsi di promozione della pace, utilizzando strumenti sia tradizionali sia digitali”.
 Baù lavora per rendere la comunicazione uno strumento di connessione, capace di adattarsi ai contesti, valorizzare le voci locali e rafforzare la fiducia reciproca.
 Profondamente consapevole delle disuguaglianze strutturali che attraversano le realtà in cui opera, Baù non si sottrae alla riflessione critica: “Esistono ancora logiche imperialiste, squilibri di potere, forme di dominio che si perpetuano anche attraverso le migliori intenzioni. Ma credo che il nostro compito, come ricercatori, sia anche quello di contribuire a un cambiamento concreto, informando le pratiche e le politiche”

Per Baù , i media partecipativi rappresentano un mezzo potente per facilitare la riconciliazione e la costruzione di una pace duratura, attraverso il rafforzamento delle comunità e la valorizzazione delle loro narrazioni.
 Dopo vent’anni di lavoro sul campo “ciò che ancora mi commuove è la generosità dei miei interlocutori, ogni volta che qualcuno condivide con me un pezzo della sua storia, mi sento profondamente grata. È un privilegio immenso e allo stesso tempo, sento anche il peso di una responsabilità etica, c’è sempre una parte di me che si chiede se sto restituendo abbastanza. È un pensiero che non mi abbandona mai”.

In un’epoca di iperconnessione e proliferazione di strumenti comunicativi, potremmo illuderci di essere più connessi che mai.

Eppure, mentre le guerre si moltiplicano e le divisioni sociali si acuiscono, ciò che spesso manca non è la comunicazione in sé, ma la capacità di ascolto, di dialogo, di costruzione condivisa di significato. Èd è qui che la Communication for Development in Peacebuilding si rivela più che mai urgente: non come tecnica, ma come etica del fare e del dire. E Valentina Baù lo dimostra con il suo lavoro: la comunicazione può ancora essere un atto di cura, uno strumento di giustizia, una forma di resistenza alla disumanizzazione, perchè tornare ad ascoltare davvero, e farlo insieme, è forse l’unico inizio possibile.