Non è un segreto che per vincere una sfida elettorale di qualsiasi tipo è necessario credere in qualcosa ed essere disposti a battersi fino in fondo per quello in cui si crede. Essenziale anche avere un piano ben delineato: sapere cioè esattamente dove si vuole arrivare e non farsi distogliere dai propri obiettivi. Esattamente tutto quello che la Coalizione ha dimostrato di non avere: convinzioni e una strategia d’azione. E, incredibilmente, perfino dopo una batosta senza precedenti, sembra non averlo completamente capito, dato che ha inserito anche l’ex ministro ombra del Tesoro Angus Taylor tra i candidati per la leadership, e sta per avviare l’ennesima ricerca di colpevoli, responsabilità e alibi.

 Doveva riconquistare, tanto per cominciare, i seggi persi nel 2022 dalla novità ‘teal’ e, con tre anni di tempo per rimediare al problema auto creato per superficialità e disattenzione, non ha messo a punto un minimo programma per recuperare il terreno di ‘casa’, affidandosi alle individualità invece che a una orchestrata strategia d’assieme. E’ andata a bene, sembra, a Goldstein grazie alla qualità di Tim Wilson, speranze ancora in vita a Kooyong puntando esclusivamente su un nome ‘importante’, in casa liberale, come quello di Amelia Hamer, nipote dell’ex premier del Victoria, Dick Hamer, ma nessun piano vero e proprio.

Per il resto notte fonda: zero in economia; voto negativo in energia a causa della carta nucleare giocata e poi nascosta e una confusa promessa su garanzie di riserve di gas per il mercato interno mai chiaramente spiegate; zero in sicurezza nazionale e immigrazione nonostante le premesse e le promesse pre-campagna; zero in infrastrutture, relazioni industriali, riforme fiscali, istruzione, edilizia abitativa (ignorando il secondo posto sulla classifica delle priorità elettorali, specie della fascia più giovane della popolazione, quella che ora ha i numeri per decidere le sorti del voto); zero in lezione imparata dopo la sconfitta di Morrison in fatto di mancanza di comunicazione, fiducia e opportunità di partecipazione dell’elettorato femminile; valori negativi nei rapporti con la popolazione indigena, interpretando decisamente male il significato del no popolare al referendum sulla Voce e nel campo della sanità. Anche il più sprovveduto della miriade di consulenti, assistenti e consiglieri vari, avrebbe dovuto capire che il governo avrebbe messo sul tavolo il jolly del Medicare, con il puntuale ricorso alla strategia della ‘paura’, della minaccia liberale ad una delle colonne portanti del laburismo. Ed invece piena libertà d’azione al primo ministro per raccontare quello che un governo di Coalizione avrebbe fatto per demolire il sistema sanitario universale. Niente di vero? Difficile dimostrarlo affidandosi al silenzio, non avendo in mano alcuna particolare idea al riguardo degli indubbi problemi da affrontare.

Il costo della vita? La risposta di Dutton è stata, praticamente, solo uno sconto dell’accisa sui carburanti per 12 mesi. Qualche cappellino MAGA qua e là e la ridicola promessa del leader dell’opposizione che con lui alla Lodge, Trump avrebbe cambiato registro sul fronte dei dazi. Lunedì scorso il presidente Usa ha, in qualche modo, sottolineato l’assurdità di quella uscita  e, facendo le congratulazioni ad Albanese per la sua vittoria, ha fatto capire di non conoscere nemmeno il nome di “quello che ha perso” le elezioni.

 Nessun programma e tante gaffe, eppure i sondaggi, seppur indicando una vittoria laburista, fino a sabato sera qualche dubbio continuavano a registrarlo sulla sua entità, mantenendo viva la possibilità di un governo di minoranza costretto a negoziati e compromessi per assicurarsi l’aiuto dei verdi (altro tonfo storico, non tanto per il numero di voti rimasti più o meno ai livelli del 2022, ma ai voti al posto giusto con un ancora possibile zero nella casella della Camera e comunque un sicuro arretramento rispetto a tre anni fa) e delle ‘indipendenti teal’ che, dopo l’iniziale euforia di sabato sera sulla riconferma di tutte, tutte non saranno più.

Albanese vincitore assoluto, ma necessità per vincitori e vinti di cominciare a fare i conti con la realtà dei tempi decisamente cambiati rispetto ai tempi certi, spesso menzionati, di Hawke e Howard. Altra era, altro tipo di partecipazione e di seguito: più di 20-30 anni dopo, il voto in Australia è sempre più frammentato e viene consolidato solamente dal sistema delle preferenze che riporta ordine nel disordine che la fine delle bandiere ha decretato già da parecchi anni, con tendenza in crescendo.

In questa tornata elettorale solo il 66% degli australiani ha scelto i laburisti o la Coalizione (circa il 2% in meno rispetto a tre anni fa): i primi hanno guadagnato qualcosa, i liberalnazionali sono invece arrivati al valore più basso di consensi diretti di sempre. Poi i conteggi infiniti, in alcuni seggi, per distribuire il rimanente trenta e più percento di voti ‘in libertà’ che i due maggiori schieramenti hanno cercato di ‘guidare’ con le loro indicazioni, studiate a tavolino, per tagliare per primi la linea del traguardo. Sicuramente determinante, in questa tornata elettorale, la decisione dei liberali di mettere i verdi sempre e comunque all’ultimo posto sulle loro liste per l’arretramento registrato dal terzo partito australiano che, come i liberali, potrebbe anche ritrovarsi costretto a cercarsi un nuovo leader se Adam Bandt non riuscirà a spuntarla nel collegio di Melbourne, dove lo spostamento di voti a favore dei laburisti è stato superiore al nove percento.

Albanese ha stravinto, in fatto di seggi, anche se ha ottenuto un numero diretto di consensi inferiore a quello che aveva ottenuto, nel pareggio del 2010, Julia Gillard, ma potrebbe alla fine dei conteggi eguagliare o addirittura superare il secondo bottino di sempre, in fatto di seggi (90), conseguito da Tony Abbott nel 2013. Mentre andiamo in stampa i laburisti sono a quota 88, ma hanno nel mirino ancora i collegi di Menzies, Melbourne, Bendigo e Monash nel Victoria, Bean nell’Act, Fremantle e Bullwinkel nel Western Australia e Longman in Queensland.

Nelle analisi a pioggia del dopo elezioni per ‘capire’ fino in fondo l’exploit laburista, continua anche a far capolino l’effetto Trump, che ha rafforzato la posizione laburista e indebolito, come in tutto il mondo, i partiti conservatori. E non hanno aiutato certamente alcune decisioni ‘sospette’ di Dutton in proposito, come la proposta di creare un Dipartimento dell’efficienza, guarda caso in stile Trump-Musk, o di promettere una linea dura sull’immigrazione (con tanto di possibile referendum-espulsioni), senza poi dare alcun seguito a progetti che hanno creato solo ‘spiacevoli’ sensazioni di mini-trumpismo.

Campagna quindi senza capo ne coda e, soprattutto, con tanta paura di rimanere indietro, tanto da rispondere con un regolare e poco credibile “anche noi” a qualsiasi proposta laburista, rifiutando solo quella che, strategicamente, era la più assurda da non seguire degli sgravi fiscali (seppur minimi) andando completamente controcorrente (specie per la filosofia liberale) di introdurre invece nuove tasse fino ad arrivare ad un’altra assurdità, ideologicamente parlando, di un deficit di gestione, nei prossimi due anni, addirittura superiore a quello previsto dal governo Albanese.

Altra incredibile impreparazione per l’ovvio, preannunciato, bis di Albanese della campagna sull’uomo: Dutton, come Morrison tre anni fa, impopolare e in un’ottica laburista ‘ineleggibile’ per le sue idee e i suoi precedenti di ministro della Sanità, dell’Immigrazione e dell’Interno (oltre che della Difesa nel governo Morrison). Eppure nessun tipo di difesa, nessuna strategia preventiva, nessuna risposta agli spot elettorali contro. Campagna sbagliata e sensazioni sbagliate anche a seguito della ‘vittoria’ sul referendum, che ha illuso un po’ i liberali sullo stato di salute di un partito ‘malato’ invece da tempo  in fatto di direzione e seguito: un po’ come era successo dopo la vittoria inaspettata del 2019 di Morrison, che era stata interpretata come una rassicurazione su valori e una tradizionale base di consensi che non esistono più.