Il tintinnio delle posate, la campanella che suona dalla cucina, lo chef che chiama le comande, l’odore del ragù che bolle in pentola. Una perpetua collisione di suoni, energia, aromi e sapori che si uniscono nelle cucine di Melbourne, dove differenti culture e lingue si interscambiano per celebrare le proprie radici attraverso le loro pietanze e per trasmettere la propria memoria, perché non vada mai persa.
Queste le motivazioni che hanno spinto il ristoratore libanese di terza generazione, Daniel Saade, e l’amico cinematografo, Redmond Stevenson, a creare Order Up, una mostra interattiva all’Immigration Museum, aperta fino al prossimo 6 aprile. Un’esposizione che vuole appunto celebrare la ricchezza e diversità multiculturale di Melbourne attraverso il suo variegato settore della ristorazione.
“Abbiamo creato un’esperienza immersiva di 25 minuti per dare al pubblico un assaggio di tutte le culture presenti a Melbourne – hanno spiegato Saade e Stevenson –. Questa mostra vuole essere un’ode a Melbourne, ai suoi ristoranti e alle persone che ne hanno fatto e ne fanno ancora parte. La nostra industria dell’ospitalità si erge sulle spalle degli immigrati che, da generazioni, nutrono questa città. Lo diamo per scontato, ma è un tale dono poter sperimentare tutto questo”.
In una stanza dove ogni singolo centimetro quadrato delle pareti è stato tappezzato da fogliettini di carta scritti a mano, i visitatori hanno quindi modo di gettare uno sguardo su un mondo che riesce a racchiudere una varietà di idiomi e sapori tanto diversi, quanto unici. Comande scritte in italiano, filippino o greco, parole buttate giù frettolosamente se il cameriere andava di fretta o scritte in maniera nitida, probabilmente durante un servizio particolarmente tranquillo.
E poi due pannelli visivi, montati agli angoli opposti della sala, dove si possono osservare immagini continue di chef ai fornelli, camerieri che sfrecciano tra la sala e la cucina, signore occupate a impastare, file infinite di comande appese al passe, quel punto di incontro, e talvolta scontro, tra la cucina e la sala.
Infine, per catturare al meglio l’esperienza, un passe montato a centro sala, dove ogni visitatore è invitato a scrivere la propria comanda, che può essere ispirata a un piatto preferito o in ricordo di una speciale esperienza culinaria.
L’idea dietro questa mostra è nata circa un anno e mezzo fa; 700 sono state le ore che il duo di amici ha dovuto spendere per creare l’esperienza multimediale. Infinita, però, la gratificazione.
“Dei ristoranti che abbiamo deciso di rappresentare, alcuni erano frutto di connessioni personali, altri di raccomandazioni, e anche un po’ di sana ricerca fatta su Google. A prescindere, ci hanno tutti accolto a braccia aperte. Ci hanno dato da mangiare. E anche se avevano un’idea di ciò che avremmo creato, non conoscevano l’interezza del progetto. Siamo arrivati con una telecamera e i microfoni, ma nessuno ci ha fatto troppe domande”.
Tra gli iconici ristoranti inclusi, quelli che hanno scritto pagine di storia di una cucina e di una cultura a Melbourne, non potevano mancare Pellegrini’s e Donnini’s.
“Ho visto questo progetto come un’opportunità per poter mostrare una parte della cultura di Melbourne che è eccezionalmente importante, ma che a volte è sottorappresentata”, spiega Marco Donnini, italo-australiano di seconda generazione, ristoratore e co-proprietario, con il fratello Riccardo, di Donnini’s a Lygon Street.
Donnini ha poi aggiunto che ha subito accolto con entusiasmo la proposta di Saade e Stevenson, ulteriormente persuaso dalla loro professionalità e genuina passione per il settore.
“Crescere in una cucina puramente italiana mi ha dato tanto. L’odore del minestrone mi ha accompagnato per molti anni, fino a impregnarmi i vestiti. La cucina povera è qualcosa di eccezionale e ti dà una grande remunerazione emotiva quando le persone la amano”.
Per Donnini cucinare e condividere il cibo con gli altri non è solo un’occasione di scambio culturale, ma anche un momento di pura spiritualità.
Per quanto riguarda la singolare scelta di mostrare centinaia di comande scritte a mano alla mostra, Donnini ha applaudito la parte nostalgica di quell’atto tanto semplice quanto sottovalutato, poiché migliaia di quei bigliettini finivano nel cestino una volta cucinato il piatto. “Ricordo che quando ero giovane scrivevo tutte le comande in corsivo. Mia nonna, invece, era abituata a scrivere in stampatello. Quindi, me li lanciava indietro ogni volta e mi diceva di riscriverli correttamente!”.
“Ora che le comande sono stampate direttamente dal computer, quella parte è andata persa. Ma quando si perde qualcosa, si finisce sempre per acquisire qualcosa di nuovo che ci rende il lavoro più semplice e veloce”.