Metamorfosi
di JB Fleming

“Cerco una persona”, dissi posando il mio vaso pieno di terra sul bancone sudicio. Il barista mi ignorò, e continuò a smacchiare un bicchiere con uno straccio sporco.

“Ehi, mi senti?”.

Nessuna risposta; continuò a pulire. Ripresi il coccio e mi guardai intorno. C’era una porta in fondo alla taverna, e dietro di essa una luce fioca. Mi accostai e una mano comparve a tirarmi dentro.

“Discrezione, per la miseria”, esclamò la figura. Non vedevo quasi nulla di lei; le ombre proiettate dalle candele rendevano difficile distinguere i dettagli. “Hai portato il necessario?”.

“Vaso di terra - cominciai -, piuma di corvo, un ramo di sambuco con il permesso della Hyldequinde. Dovrebbe esserci tutto”. Porsi la mia sacca alla maga.

Non li vedevo, ma sentivo i suoi occhi su di me. Sapevo cosa stava vedendo: una persona insignificante che era disposta a tutto pur di non esserlo più. A un tratto il suo sguardo mi infastidì.

“Cominciamo?”, dissi allora.

“Non avere fretta. Il rituale ti cambierà per sempre e non è detto che ti renda ciò che vuoi. Ma puoi ancora tirarti indietro”.

Presi un respiro per gonfiare il mio corpo, renderlo imponente.

“Nei boschi la Donna del Sambuco mi ha chiesto a cosa mi servisse un suo ramo. Dopo avermi ascoltato mi ha benedetto. Perché ora tu ti opponi?”

“La magia non è sempre la soluzione”.

La sua preoccupazione era sincera; non mi stava negando ciò che chiedevo.

“Quando non se ne può più, si cambia”, sussurrai.

La maga prese allora il mio vaso di terra e lo pose al centro della stanza. Con un gesto delle mani lo allargò.

“Entraci dentro”. Obbedii.

Uno dopo l’altro, bruciò ogni ingrediente sul fuoco di una candela, intonando una litania. Le ceneri caddero sul terriccio. Poi le sentii. Radici.

Uscivano dalle mie gambe, dai miei piedi, mi ancoravano alla terra. Stavo rientrando nel suo grembo come un germoglio. Ero un seme. Avvolta nel buio non sentii più nulla. Il mio ultimo pensiero fu per il calore del sole. Un giorno, forse, mi avrebbe dato alla luce ancora.

1985
Matisse

“Buongiorno, tesoro”.
Buongiorno, un bel cavolo. Marco vorrebbe farsi minuscolo e scomparire dietro il cuscino, e poi schizzare fuori e rispondere: “Ho sonno!”

Ma Marco ha sette anni – sette! –, timide lentiggini, e gli esce soltanto un lamento, piccolo. E niente. Non gli resta che aprire quegli occhi così assonnati da stropicciare pure la sua stanza. Solo a guardarla.

“Forza, dormiglione”. E la mano che prima gli stava accarezzando la fronte ora vira birichina su naso e guance. Scappa, Marco, scappa. Ma lui ride e si gira a pancia in giù per sfuggire il solletico. Inspira e ripassa il mondo attraverso i profumi. Oggi, vediamo, crema – mamma. Giusto. Perché Papà sa di acqua di colonia e nonno di tabacco.

“Andiamo in montagna”.

Vacanze, nonni, cugini, giocare dal mattino alla sera. E vai.

Marco scende dal letto. Ciondola un poco tra i giochi fuori posto, poi parte a razzo e attraversa il corridoio, tip top fanno i piedi scalzi sul pavimento. “Non correre!” lo insegue mamma, fino a tavola dove la colazione – poca, eh, la strada è tutta curve, poi… – lo attende già.

Marco sogna nuove avventure e inzuppa i biscotti al miele nel caffelatte, e continua a combattere mostri anche mentre si veste e allaccia le scarpe.

“Ci sei?”

Annuisce e intanto canticchia: “Zorro, Zorrooo”, mentre sale in auto.

La vecchia Fiat ronza come un tafano. Marco appoggia il mento sul bordo del sedile davanti. Così può osservare papà che cambia marcia, gira il volante e parla con mamma. Marco non vede l’ora di essere come lui. Già sogna un’auto tutta sua, una fidanzata che sposerà. E un giorno dei figli e poi poi poi. Ma… ops: è ancora troppo piccolo.

“Vediamo se sei cresciuto - dice sempre nonno Toni -, mettiti vicino al tronco del pino”. E Marco spera che quel segno finisca altissimo.

Il bimbo disegna fronde e i rami sul vetro. Quando il dito si ferma, l’immaginazione è già al di là del finestrino. Le sue radici non si vedono ancora, ma già lo accompagnano ovunque.

Bar sulla Statale 81
Zote

Laura notò lo stesso uomo comparire sulla soglia del suo bar per la sesta volta in un mese.

Entrò accompagnato dall’odore dell’asfalto bagnato, si portò la mano alla visiera del berretto in un goffo cenno di saluto e andò a sedersi al bancone. Camicia a quadri e barba incolta lo facevano sembrare un camionista del Wyoming.

“Il solito?” chiese lei.

“Puoi contarci”.

La ragazza versò due dita di Four Roses in un bicchiere e lo spinse verso di lui. L’uomo lo afferrò e lo avvicinò alla bocca. Poi però esitò e rimase a fissarsi nello specchio ambrato del bourbon.

“Qualcosa non va?” chiese lei.

“Stanco. Credo”. Buttò giù un sorso, poi si strofinò le palpebre con il pollice e il medio, come a ricacciare indietro un pensiero. “Sono sempre in giro per lavoro”.

“Mai pensato di fermarti?” disse lei.

Un altro sorso. “Io? Fermarmi?” disse forzando una risata. “Perché mai dovrei. Sono un giardiniere con il mondo intero per giardino!”

Laura si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, afferrò un post-it vicino alla cassa e iniziò a scrivere. Gli lanciò uno sguardo di sbieco e sorrise.

“Permettimi una domanda - disse -. Perché, se hai a disposizione il mondo, è la sesta volta in un mese che vieni nello stesso bar in mezzo al nulla?”

L’uomo si abbassò la visiera sugli occhi e svuotò il bicchiere tutto d’un fiato. Lei lo osservò bene: il rossore sulle sue guance non era soltanto un effetto del bourbon.

“Un caso”, disse con le parole incrinate dal bruciore dell’alcol.

Laura sollevò un sopracciglio con un mezzo ghigno sulle labbra.

“Un caso, eh?” disse. Lui la guardò in imbarazzo. Lei si avvicinò e gli infilò il post-it nel bicchiere vuoto. “Un giardiniere dovrebbe saperlo che le piante non mettono radici per caso”.

Lui spiegò il foglietto, lo lesse e sorrise. Poi lo richiuse con delicatezza, lo infilò nella tasca interna del giubbotto e si alzò.

“A domani quindi?” chiese lei.

L’uomo rispose guardandola negli occhi. “Beh, pare che qualcuno debba pur prendersi cura di questo giardino, no?”

Le radici che restano
Ciliegia bucata

“Tra quaranta metri, svoltare a destra”.

Mentre l’auto si inerpica per la salita dissestata, Dafne stringe tra i denti un bastoncino di liquirizia fin quasi a spezzarlo. Davvero un bel momento per smettere di fumare.

Per riconoscere la casa dei nonni non ha bisogno del navigatore.

Mentre si ferma sul piazzale di breccia, sullo specchietto retrovisore appare una faccia piccola e tonda come una mela, un pomo pallido e vizzo che matura all’istante quando incrocia il suo sguardo.

Dafne si sbatte la portiera alle spalle e chiude le sicure senza guardare. La macchina lancia un guaito elettronico che scuote il vecchietto appoggiato al cancello.

“Buongiorno, Alfonso”, lo saluta Dafne con una formalità di cui si pente subito. Se lo ricordava più giovane, ma anche più alto. L’uomo aspira a lungo dalla sigaretta che tiene in bocca.

“Sei cresciuta”, le dice con gli occhi puntati su qualcosa che forse non c’è.

“Siamo cresciuti tutti”, risponde Dafne azzardando un sorriso. Ultimamente lo fa così di rado che sente la pelle tirare.

Alfonso si succhia gli incisivi con aria pensosa.

“Voi crescete. Noi invecchiamo”, sentenzia mentre butta la cicca a terra e la pesta con gli stivali. “Non ti faccio perdere tempo: sta là”.

Dafne lo segue cercando di tenere gli occhi fissi a terra, come quando da piccola entrava con i cugini più grandi nella casa delle streghe: basta poco per imbrattarsi con un ricordo e portarlo indietro fino a casa.

Alfonso si ferma di fronte a un pioppo enorme. È l’unica cosa che agli occhi di Dafne non appare più misera di come la ricordasse.

“Le radici sono dappertutto. O lui, o la casa. Devi pensarci tu”.

Dafne pensa ai nonni, poi a suo zio Ezio. Alle caramelle al limone e alle sue mani enormi. Viscide. Sempre pronte a scivolare dove non avrebbero mai dovuto.

Alfonso le dà una piccola pacca sulla spalla prima di allontanarsi. Dafne resta lì, davanti all’albero. Mentre mastica la sua liquirizia pensa che certe radici, a pensarci bene, fanno meno danni di altre.

Le radici del banyan

Lilla

Seduta su una panchina dei Botanical Gardens, Emma fissava i raggi del sole che filtravano tra le foglie. Il caldo di quel pomeriggio le impediva di concentrarsi sul libro che teneva aperto sulle ginocchia.

La ragazza portò le mani al ventre ripensando a quel battito di ali di farfalla che non c’era più. Le venne in mente il suo bambino e una lacrima le scivolò sulla pagina del libro mescolandosi alle parole.

“È incredibile, vero?” disse una voce maschile come sbucata dal nulla.

Emma alzò lo sguardo e si asciugò gli occhi. Un ragazzo dai capelli spettinati la stava osservando.

“Questo banyan è straordinario” disse il giovane indicando l’albero accanto alla panchina. “Vengo a fotografarlo ogni giorno, verso sera”.

“Banyan?” ripeté Emma. “Non sapevo si chiamasse così”.

“È un albero unico - spiegò il ragazzo-. Le sue radici sono multiple. Alcune sono dritte, altre ricurve, altre s’intrecciano fra loro fluttuando nell’aria. Somigliano un po’ alle nostre vite. Ognuna segue il suo corso senza sapere dove porterà”.

Quelle parole colsero Emma di sorpresa. Chiuse il libro e corrugò la fronte. Una luce le illuminò lo sguardo.

“Venire qui mi dà tanta pace” aggiunse il ragazzo anticipando i suoi pensieri.

Emma annuì con un sospiro.

“Hai mai pensato di abbracciare un albero?” chiese il ragazzo all’improvviso.

Emma lo guardò stupita.

“No, mai” rispose con una punta di scetticismo.

“Che ne dici di provarci ora, insieme?”

Si fecero strada fra le radici aeree e avvolsero il banyan in un abbraccio.

Rimasero lì in silenzio, le mani sulla corteccia rugosa, sentendo la forza dell’albero pulsare sotto le dita. Emma cercò di raccogliere i pensieri, come pezzi sparsi di un puzzle. Un sorriso le affiorò sulle labbra, mentre il dolore si scioglieva nel petto, lasciando spazio a un nuovo inizio.

“Scusami, dimenticavo! Sono Luke” disse il ragazzo interrompendo i suoi pensieri.

«Mi occupo di bagni forestali, un’antica pratica giapponese. E tu, come ti chiami?»

«Emma. Il mio nome è Emma. Felice di averti conosciuto, Luke!»

Dov’è casa? 
Millantastorie

Adele si fermò nell’androne del palazzo, davanti alla grande scala aperta. Aveva stentato a riconoscere la strada e le case vicine. Anche il portone del palazzo, che aveva appena varcato seguendo sua sorella, sembrava più angusto.

Inspirò profondamente, ma non sentì né le fragranze del panificio vicino, né l’odore del caffè che dalle cucine serpeggiava sotto le porte.

La voce di sua sorella Imma la destò: “Adele, cosa aspetti a salire?”

“Il cortile è accussì silenzioso” rispose, ma avrebbe voluto dirle che si aspettava di sentire il vociare allegro in dialetto, le risate dei bambini che correvano sul selciato.

“Ormai qua ci stanno solo coppie giovani, di giorno faticano tutti” le spiegò Imma.

“Non conosco più nessuno” rifletté Adele seguendo la sorella su per le scale, che non erano più di scura pietra lavica, ma di candido marmo. “Non c’è più odore di creolina” osservò.

“Non siamo più nel Medioevo, niente topi da allontanare!” Imma la fece sentire sciocca, per cui tenne per sé ogni altra considerazione sul passato, ma cominciava a perdere entusiasmo per l’idea di tornare a vivere a Napoli.

La porta di casa era sempre la stessa, solo un po’ più sverniciata; anche l’arredamento era identico a come lo aveva lasciato, ma l’aria era ferma, stantia, senza l’odore di cera con cui sua madre lucidava i pavimenti. Aprì una credenza, cercando le stoviglie di un tempo, ma trovò solo polvere. 

Si voltò verso la finestra che sua sorella aveva aperto: la luce filtrava con un’intensità diversa da come la ricordava, più cruda, meno calda. Chiuse gli occhi, cercando di evocare la voce del padre, i passi frettolosi di sua madre: solo silenzio.

Ansimò, come se quel vuoto la soffocasse. Allora pensò alla casa da cui era fuggita dopo la morte del marito, intrisa di ricordi e di affetti, si sentì mancare e si appoggiò al tavolo.

“Adele, che hai? Non stai bene?” 

“Non ce la faccio, Imma, a tornare qua, dopo tanti anni.  

Le mie radici sono a Milano ormai e sono troppo vecchia per trapiantarle ancora”.

Muladhara Chakra 
Lievitomadre

«Devi equilibrare il tuo Muladhara!» disse Jole posando una mano sulla mia spalla e guardandomi negli occhi.

“Il mio che?” si chiese la Mia-me interiore, limandosi annoiata le unghie, mentre scuoteva la testa al pensiero di quanto facilmente mi fossi fatta convincere da Alessia, la mia amica di sempre, a provare questa nuova esperienza.

Come se Jole riuscisse a sentire i miei pensieri, premendo ancor più la mano sulla scapola, spiegò: «Muladhara è il chakra della radice: è quello che sostiene e permette all’energia di salire, il tuo è squilibrato ed è per questo che sei così sfiduciata, insicura e hai poca stima di te stessa.»

“Qui, di squilibrato, ci sei solo tu, mia cara, con la tua treccia grigia e la faccia rugosa, e gli altri dieci idioti che da due giorni ti fanno compagnia” sibilò ridacchiando la Mia-me.

Annuii educatamente. Mi ero fatta trascinare in quel ritiro Yoga da cui avrei dovuto trarre benefici mentali e, invece, avrei portato a casa qualche chilo in meno, merito della dieta vegana, e molto scetticismo in più.

Jole mi spinse giù dalle spalle, facendomi sedere sul terreno.

Si mise di fronte a me, con le gambe incrociate e la schiena diritta. Chiuse gli occhi e feci altrettanto.

«Fai un bel respiro. Ora visualizza le tue radici interiori. Portale dal tuo corpo verso il terreno e fai defluire tutta l’energia negativa.

Adesso richiamale a te e ti porteranno l’energia positiva che ha donato loro Madre Terra.»

La Mia-me irruppe in una fragorosa risata. Poi però tacque.

Le mie dita affondate nel terreno iniziarono a bruciare, sentii il calore irradiarsi per le braccia. Fuoco.

Poi una lieve brezza mi solleticò la nuca. Aria.

Allungai i polpastrelli verso l’erba, sentii gli steli bagnati di rugiada. Acqua.

Sempre con gli occhi chiusi avvicinai le dita alle labbra e ne sentii il sapore. Terra.

Iniziai a piangere di gioia, sentendo le radici portare nel mio corpo una solida fiducia in me stessa.

Nyssia 
Bendico

Se a Pineda Marina nessun’ombra di scetticismo aveva mai messo radici, la colpa – o il merito – era senz’altro di Nyssia. Da quando si aveva memoria, usava muovere il destino di chiunque le chiedesse aiuto, con la grazia di chi sa leggere nelle pieghe dell’universo.

Nessuno in paese sapeva nulla di lei. Eppure, tutti le riversavano in grembo le loro vite senza esitazione, come si lascia entrare il vento in casa sapendo che ne cambierà l’odore.

Nyssia sapeva. E lo usava per far succedere le cose. Come quel pomeriggio, quando Pietro la trovò seduta al belvedere, con l’autunno le che danzava tra i capelli. «Ti stavo aspettando», disse lei. L’uomo indugiò, incapace di dare voce al dubbio che lo consumava. Non ce ne fu bisogno.

«Non ti mente, Pietro», disse Nyssia con premurosa franchezza. «E non ti vuole costringere a sposarla. Lo so io e lo sai anche tu. La scelta è solo tua, e questo è il momento di averne il coraggio». Pietro non sapeva se sentirsi scosso o rincuorato, ma accettò il fatto che sì, ora toccava a lui. “Come succede a tutti, con Nyssia”, pensò il ragazzo. Se ne andò mentre il sole calava già nella baia.

Come sempre a quell’ora, la donna si avviò per lo sterrato che portava fuori paese, con i passi leggeri di chi non vuole lasciare traccia. Nessuno la seguì: nessuno aveva mai infranto quella regola non scritta.

Arrivata a casa, spinse la porta ed entrò. Calpestò appagata la terra nuda, in un’aria densa di muschio e di resina.

Uscita sul retro, si spogliò. Alla luce morente del giorno, la sua pelle iniziò a mutare, i capelli si allungarono in rami frondosi, le gambe si fusero in un unico tronco. Al centro del giardino, affondò nel terreno quel tanto che bastava. Subito, la rete di radici sotto il villaggio riprese a portarle da ogni angolo voci, pensieri, emozioni. Ascoltava senza giudizio, senza peso. Era lì per loro, come loro erano lì per lei, in un unico respiro.

Olga 
Memo

Anna esce dalla 3C. Il rumore dei banchi che strisciano copre per un attimo i suoi pensieri. Sta per andare, quando sente dei passi dietro di sé. È Olga, la sua alunna dai lunghi capelli scuri, lo sguardo incerto.

«Prof, posso parlarle?» chiede torcendosi le mani.

«Ho lezione in 2C. Vieni con me, parliamo mentre cammino.»

Olga annuisce e la segue in silenzio, poi si decide a parlare.

«Mia mamma…» esita. «Dice che faccio schifo.»

Anna si ferma un istante. Schifo. Ricorda la voce di sua madre, tanti anni prima. I suoi occhi severi mentre la osservava stringere la cintura dei pantaloni che non si chiudevano.

«Perché?» le chiede, mantenendo il tono fermo.

«Dice che sono un’ingrata. Lei mi aiuta a studiare e io prendo sempre brutti voti.»

Anna sospira. Guarda la ragazza accanto a lei, dodici anni e un peso troppo grande sulle spalle.

«Hai parlato con la psicologa della scuola?»

Olga scuote la testa. «Mia madre dice che non mi serve.»

Anna sente un nodo in gola. Olga aspetta una risposta.

«Tua mamma sta facendo quello che può. Forse anche a lei hanno detto queste cose da piccola e pensa di spronarti. Tu non fai schifo, sei preziosa. Ricordatelo sempre, anche quando fa male.»

Olga abbassa lo sguardo.

«Immagina uno schermo tra te e le sue parole. Lasciale rimbalzare via, non farle entrare dentro di te.»

La ragazza annuisce.

«E poi sei intelligente. Ti piacciono le lingue, vero?»

«Sì» mormora Olga.

«Vuoi accompagnare i turisti? Allora studia. Più cose sai, più possibilità avrai. Un giorno potrai andartene, costruire la tua vita.»

Gli occhi di Olga finalmente si illuminano. Un sorriso le sfiora le labbra.

«Grazie, prof.» Poi corre in classe.

Anna rimane ferma nel corridoio, quella conversazione le rimbalza in testa per tutto il giorno.

Il mattino seguente la trova fuori dall’aula. La ragazza la guarda, stavolta senza esitazione.

«Grazie per le sue parole, prof» dice con voce sicura.

Anna sorride. «Vai in classe ora.»

Olga annuisce e si allontana, leggera. Anna la osserva, sapendo di aver piantato un seme che forse metterà radici.

Ritorno a casa
Pancake

«Ci crederò solo dopo averti vista! Allora domani mattina caffè?»

Gaia legge il messaggio della sua amica Anna e sorride. A causa della pandemia manca da casa da più di un anno; un po’ fa strano riprendere le vecchie abitudini.

«Ok. Sono arrivata a Milano, ci sentiamo dopo!», le risponde.

Scesa dal treno proveniente da Lione, va verso il Frecciarossa che la porterà a Napoli. Per raggiungere il binario fa lo slalom tra la gente, che per i suoi gusti cammina troppo lentamente. Un tipo le sbuca davanti, guardando in direzione opposta a quella da cui proviene lei. Lo evita di appena una frazione di millimetro, così mentre lo supera gli dice: «Désolée!». Poi si rende conto, e ride tra sé. Ormai si è disabituata a dire «scusi».

Sale in carrozza e siede al suo posto, lato finestrino. Il treno non fa in tempo a partire che lei si addormenta: la scorsa notte era troppo su di giri per riposarsi adeguatamente. Si risveglia che è quasi arrivata. Non vede l’ora di riabbracciare i suoi genitori, ma a parte la lontananza forzata deve ammettere che le cose le stanno andando bene.

Il treno ferma in stazione, Gaia scende e si dirige verso la metropolitana. Mentre le sue gambe percorrono in automatico un tragitto fatto milioni di volte in passato, lei fa una sorta di bilancio dell’anno trascorso. Nonostante le difficoltà, sente di aver trovato il suo posto. Il lavoro le piace, ha conosciuto gente meravigliosa. Lo scorso Natale hanno improvvisato un pranzo per combattere la nostalgia di casa. Tanti hanno vissuto situazioni simili alla sua, si è creato un bel senso di comunità durante quel periodo.

Alla fermata, esce dalla metropolitana e si avvia lungo la strada, pensando ancora alla sua nuova vita. «Nuove radici possono crescere ovunque, no? Basta avere le condizioni giuste», si dice mentre arriva in fondo alla strada.

Solo che poi gira l’angolo e, finalmente, vede il mare. Respira, e si accorge che finora è stata in apnea. Ora, invece, è a casa.

Ritrovarsi 
Screanzata

Non so da quanto sta suonando la sveglia. Mi alzo di scatto e sento strappare; la schiena. Come se si fosse incollata al letto.

Mi volto a guardare: piccoli buchi costellano il lenzuolo. Lo scosto, e anche il materasso, uno di quelli economici in memory foam, ha piccoli buchi.

Guardo la sveglia.

Sono in ritardo.

Ci penserò la sera.

Ma la sera sono stanco, me ne dimentico. Mi addormento sul divano, davanti alla tivù che trasmette la serie del momento. La guardo perché altrimenti i colleghi pensano che viva fuori dal mondo. Quanto mi piacerebbe, però, vivere fuori dal mondo.

Mi sveglio di soprassalto. Sullo schermo ancora acceso i promo delle ultime uscite. Sto per alzarmi ma percepisco di nuovo quel tirare della pelle. Cosa faccio? Se mi alzo di colpo cosa succederà?

Provo.

Un bruciore si spande lento sulla pelle che fino a poco fa riposava sulla stoffa blu del divano. Vado in camera da letto, davanti allo specchio dell’armadio. Contorcendomi un po’ le vedo. Piccole protuberanze pallide. Mi coprono la schiena fino al sedere. Quelle più in basso, dietro le gambe, sono arrossate.

Non ho più sonno. I pensieri frullano e si accavallano. Fuori dalla finestra la notte mi guarda e decido di uscire. Cammino rapido, la mente sopraffatta non fa caso alla direzione. È il corpo a riportarmi alla realtà, la pelle formicola di eccitazione. Sollevo lo sguardo dalla punta dei miei piedi. Sono nel parco, davanti a un albero. Il fusto, dal diametro imponente, ha una bella conca alla sua base. Perfetta per sedersi e contemplare l’alba che sta colorando il cielo sopra i grattacieli.

La schiena appoggiata al tronco ruvido. Il sedere affondato nell’erba. Le poche foglie secche mi solleticano i polpacci. Le mie radici stanno crescendo, sento la terra soffice, non fredda quanto credevo. Percepisco la presenza dell’acqua in profondità, il micelio che si allunga verso di me. Chiudo gli occhi e il mondo si apre per me. Finalmente sono nel mio posto.

Vivarium 
Sam

Attraverso l’identificazione dell’iride Mich, il cuoco di bordo, sbloccò il portello del Vivarium, la serra climatizzata dell’astronave Space V, che si aprì con un soffio. Entrò nel sistema ecologico artificiale chiuso, dedicato alla coltivazione delle verdure selezionate per la dieta degli astronauti.

Il cuoco salutò la fioritura della zinnia che contrastava con lo spettacolo sublime, ma inerte, dell’universo dagli oblò panoramici.

«Hi Stephan» si rivolse all’etologo vegetale e informatico alla console. «Prendo la cicoria oggi, è piena di prebiotici.»

Ossigeno, acqua ed energia nutrivano tre tipi di colture. Le verdure in foglia crescevano, in condizioni di completo controllo ambientale, in una struttura di ripiani adattativi colmi di compost e batteri. Mich colse alcune foglie nei cassetti illuminati da led, poi si spostò verso le colture idroponiche e quelle a radice nuda, sospese nel microclima del modulo, costantemente umettate coi nutrienti più idonei dalla AI, chiamata Tom.

Stephan controllava il display che mostrava come i segnali elettrici che provenivano dalle foglie e dalle radici, colloquiassero instancabilmente fra di loro e con l’ambiente.

L’informatico aveva ideato un complesso sistema di lettori di impulsi, che interpretavano il linguaggio vegetale e lo traducevano per Tom, che interloquiva, decifrando i bisogni delle piante per soddisfarne i desideri. Sul display palpitava il diagramma mobile dell’ininterrotto cicaleccio vegetale. Mich sbirciò sopra le spalle di Stephan.

«Quanto chiacchierano» esclamò «hai fatto un lavoro fantastico!»

«Sì, oggi Tom mostra una insolita vivacità nelle interazioni» ammise.

Il cuoco uscì dal Vivarium e trovò i suoi compagni in plancia davanti ai pannelli di comando che discutevano animatamente sulla nuova rotta che Tom in autonomia aveva impresso alla nave. Si dirigevano verso un lontano ignoto esopianeta, che ruotava attorno a una stella fredda, monocromatico verde con rilevanti percentuali di ossigeno, ozono e idrogeno.