ROMA - L’entrata in vigore del decreto-legge n. 36/2025, conosciuto come “decreto Tajani”, ha ridisegnato radicalmente il panorama della cittadinanza italiana iure sanguinis, cioè quella ottenuta per discendenza.
Il decreto introduce criteri più restrittivi, stabilendo, tra le altre cose, che solo chi ha almeno un genitore o un ascendente di primo grado nato in Italia – o che vi abbia risieduto per almeno due anni - può vedersi riconosciuta automaticamente la cittadinanza.
Il provvedimento ha immediatamente generato dubbi e contestazioni, soprattutto sul piano della sua applicazione retroattiva. A pochi mesi dalla sua promulgazione, i tribunali italiani stanno già offrendo le prime risposte.
Il Tribunale di Campobasso è stato tra i primi a pronunciarsi con fermezza contro un’interpretazione retroattiva del decreto.
Il caso riguardava i discendenti di una bisnonna italiana emigrata negli Stati Uniti, che avevano presentato la loro domanda di riconoscimento della cittadinanza prima del 27 marzo 2025, data limite fissata dal nuovo decreto per mantenere le regole precedenti.
Nonostante ciò, il ministero dell’Interno ha provato a far valere le nuove restrizioni, cercando di negare il diritto. Il tribunale ha rigettato la posizione del ministero, sottolineando che applicare retroattivamente la nuova normativa sarebbe incostituzionale e in violazione di principi fondamentali del diritto, come la certezza giuridica.
La sentenza ha inoltre imposto al ministero il pagamento delle spese processuali, sottolineando la fragilità della sua linea difensiva.
Nel frattempo, anche la Corte d’Appello di Ancona si è trovata a dover valutare un caso che, sebbene non direttamente legato al nuovo decreto, risente del clima di incertezza creato dalla sua introduzione.
Un cittadino statunitense ha richiesto il riconoscimento della cittadinanza per sé e per sua madre defunta, sostenendo di discendere da un uomo nato in Italia nel 1887. Il primo grado aveva rigettato la richiesta, sostenendo che l’avo avesse perso la cittadinanza una volta naturalizzato americano, interrompendo così la catena di trasmissione.
In appello, però, il ricorrente ha fatto riferimento alla legge italiana del 1912, che tutelava la cittadinanza dei figli minori anche quando i genitori la perdevano. Il ministero dell’Interno, questa volta, non si è presentato in aula, mentre il procuratore generale ha chiesto di confermare il rigetto. La Corte ha concluso l’udienza senza decidere, riservandosi il giudizio.
Entrambi i casi testimoniano come il decreto-legge n. 36/2025 stia già producendo un effetto a catena sul sistema giuridico. Da un lato, spinge i giudici a riflettere sull’equilibrio tra le nuove esigenze legislative e i diritti acquisiti; dall’altro, riapre il dibattito sull’identità e sull’accesso alla cittadinanza da parte di milioni di discendenti di emigranti italiani nel mondo.
Mentre il governo cerca di regolamentare l’afflusso di richieste, la magistratura è chiamata a garantire che la transizione avvenga nel rispetto dei principi costituzionali. Le sentenze di Campobasso e Ancona segnano così l’inizio di un confronto che si preannuncia lungo e carico di implicazioni giuridiche e umane.